programma life bando 2017

Programma Life Bando 2017

Il Life è lo strumento di finanziamento dell’azione dell’ Unione Europea per l’ambiente e per il clima.

Il programma Life, istituito con il Regolamento n. 1293/2013, è infatti articolato in due sottoprogrammi:

– Ambiente, con tre settori prioritari di intervento, segnatamente ambiente ed uso efficiente delle risorse, natura e biodiversità, governance ed informazione in materia ambientale.

– Azione per il clima, che copre invece le seguenti aree: mitigazione dei cambiamenti climatici, adattamento ai cambiamenti climatici, governance ed informazione in materia di clima.

Il bando 2017- aperto lo scorso 28 aprile – finanzia, per un bilancio complessivo di 373 milioni di euro, progetti nei campi sopracitati, prevedendo la possibilità per i richiedenti -inclusi gli enti pubblici- di ottenere contributi a fondo perduto fino al 60% delle spese ammissibili del progetto.

Il bando contempla diverse tipologie di progetto:

i c.d. “Progetti Tradizionali”, tra cui “Progetti di buone pratiche” (ovvero progetti che applicano tecniche, metodi e approcci adeguati, efficaci sotto il profilo economico e all’avanguardia, tenendo conto del contesto specifico del progetto). “Progetti Dimostrativi”(progetti che mettono in pratica, sperimentano, valutano e diffondono azioni, metodologie o approcci che sono nuovi o sconosciuti nel contesto specifico del progetto). “Progetti Pilota” (progetti che applicano una tecnica o un metodo che non è stato applicato e testato/sperimentato prima, o altrove, e che offrono potenziali vantaggi ambientali o climatici rispetto alle attuali migliori). “Progetti di informazione, sensibilizzazione e divulgazione”

i Progetti Preparatori, identificati dalla Commissione in cooperazione con gli Stati membri per rispondere alle esigenze specifiche connesse allo sviluppo e all’attuazione delle politiche e legislazioni dell’Unione in materia di ambiente.

i Progetti Integrati, finalizzati ad attuare su una vasta scala territoriale, in particolare regionale, multi-regionale, nazionale o transnazionale, piani di azione o strategie ambientali o climatiche previsti dalla legislazione dell’Unione in materia ambientale o climatica, elaborati dalle autorità degli Stati membri.

i Progetti di Assistenza Tecnica che forniscono, mediante sovvenzioni per azioni, un sostegno finanziario per aiutare i richiedenti a elaborare progetti integrati e, in particolare, per garantire che tali progetti siano conformi alle tempistiche e ai requisiti tecnici e finanziari del programma LIFE in coordinamento con altri fondi (FESR, FEASR, ecc.)

Il bando è suddiviso in varie aree tematiche e a seconda della tipologia di progetto presenta scadenze diverse, ma tutte comprese nelle prime due settimane di settembre dell’anno corrente.

La presentazione dei progetti avviene in forma telematica attraverso il sistema eProposal ( https://webgate.ec.europa.eu/eproposalWeb )

Maggiori informazioni possono essere reperite ai seguenti indirizzi istituzionali:

http://ec.europa.eu/environment/life/funding/life.htm

http://www.minambiente.it/pagina/call-2017

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inquinamento elettromagnetico tutela civile

Inquinamento elettromagnetico tutela civile

Il problema della tutela della salute dall’inquinamento dei campi elettrici e magnetici generati da elettrodotti è stato affrontato dalla giurisprudenza civile, la quale nel tempo ha più volte operato un revirement rispetto all’orientamento precedente.

La giurisprudenza ordinaria precedente al d.P.C.M. 23 aprile 1992, che ha introdotto nel nostro ordinamento i limiti massimi di esposizione a campi elettrici e magnetici a bassa frequenza negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno, in sede di esame di ricorso d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., era solita negare la sussistenza del presupposto del periculum in mora sulla base della considerazione che lo stato delle conoscenze scientifiche consentiva di pervenire ad un giudizio meramente probabilistico circa eventuali connessioni fra i campi elettromagnetici e conseguenze dannose o pericolose per la salute umana.

In seguito al d. P.C.M. del 1992, le corti manifestavano invece la convinzione che la funzione giudiziale di tutela dall’inquinamento elettromagnetico si esaurisse nella mera verifica del rispetto dei limiti stabiliti dalla normativa di settore.

Nei primi anni Duemila la giurisprudenza ha mutato indirizzo proprio ad opera della Corte di Cassazione, la quale con la sentenza Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2000, n. 9893, in un caso di realizzazione di un elettrodotto nei pressi di un’abitazione, affermò che rientra nei poteri del giudice ordinario accertare se, sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite nel momento in cui si tratta di decidere ed avuto riguardo anche alla situazione del caso concreto, vi sia pericolo per la conservazione dello stato di salute nella esposizione al fattore inquinante, ancorché tale esposizione si determini nel rispetto dei limiti massimi stabiliti dalla disciplina di rango secondario vigente al momento della decisione.

Alcuni giudici di merito ritennero quindi che le immissioni prodotte da un elettrodotto siano “intollerabili” ai sensi dell’art. 844 c.c. e possano dare diritto al risarcimento del danno quando, indipendentemente dai limiti previsti dal d.P.C.M. del 1992, superino valori ben inferiori, in molti casi il parametro di 0,3-0,4 micro Tesla di campo magnetico individuato dalla IARC per classificare i campi ELF come possibilmente cancerogeno.

Il d.P.C.M. 8 luglio 2003, in attuazione delle legge quadro n. 36 del 2001, ha fissato limiti massimi di esposizione e valori di attenzione più restrittivi dei limiti precedentemente vigenti ai sensi del d.P.C.M. del 1992, ma comunque superiori a quelli indicati dalla IARC.

Dal 2007 si assiste ad un nuovo revirement sempre ad opera della Corte di Cassazione proprio nelle vicende processuali legate all’ impugnazione delle sentenze di merito poco sopra richiamate, venendosi così a creare l’indirizzo giurisprudenziale attualmente seguito dalle corti: le immissioni che si mantengono nei limiti della normativa vigente sono assistite da una presunzione di non pericolosità e deve pertanto escludersi, in caso di mancato superamento di tali limiti, un atteggiamento prudenziale che finisca per ritenerle intollerabili e riconoscere il diritto al risarcimento di un danno alla salute del tutto ipotetico.

La sentenza Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2007, n. 3897, ha infatti chiarito che “il principio di precauzione – sancito dall’ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale – è già assicurato dallo stesso legislatore statale attraverso la disciplina contenuta nella L. 22 febbraio 2001, n. 36, e nel D.P.C.M. 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, che è ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore”.

Dunque, se ai fini dell’applicabilità della tutela inibitoria ai sensi dell’art. 844 c.c. e della tutela risarcitoria da responsabilità extracontrattuale in materia di immissioni sonore si afferma l’irrilevanza della normativa pubblicistica a tutela della salute e dell’ambiente in tema di inquinamento acustico (Cass. civ., sez. II, 31 ottobre 2014, n. 23283), per quanto riguarda le immissioni di onde elettromagnetiche risulta invece necessario, forse considerata anche la diversa caratteristica della percepibilità delle une rispetto alle altre, il superamento dei limiti posti dalla disciplina regolatoria di settore.

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abbandono rifiuti e discarica abusiva

Abbandono di rifiuti, deposito incontrollato e discarica abusiva

Il codice dell’ambiente prevede all’art. 255 comma 1 che la condotta di abbandono di rifiuti o deposito incontrollato di rifiuti o di immissione degli stessi nelle acque superficiali o sotterranee costituisce un illecito amministrativo punito con sanzione pecuniaria, mentre all’art. 256 comma 2 stabilisce che le medesime condotte qualora compiute da titolari di imprese o da responsabili di enti integrano un reato contravvenzionale punito alternativamente con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o dell’ammenda da 2 600 a 26 000 euro se si tratta di rifiuti non pericolosi oppure congiuntamente con arresto e ammenda di uguale entità se si tratta di rifiuti pericolosi.

L’art. 256 comma 3 del codice dell’ambiente sanziona chiunque, privato o imprenditore, realizza o gestisce una discarica non autorizzata con la pena congiunta dell’arresto da sei mesi a due anni e dell’ammenda da 2 600 a 26 000 euro se nella discarica vengono smaltiti solo rifiuti non pericolosi e con la pena congiunta dell’arresto da uno a tre anni e dell’ammenda da 5 000 a 50 000 euro se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi.

Poiché le condotte di abbandono di rifiuti, ma anche deposito incontrollato e discarica si concretano tutte in un’operazione di deposito sul suolo o nel suolo di rifiuti, è assai importante capire quali caratteristiche della condotta siano determinanti ai fini della distinzione tra le diverse ipotesi, soprattutto tra le prime due e la terza, dal momento che abbandono e deposito incontrollato sono sottoposti a uguale trattamento sanzionatorio.

Recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza Cass. pen., sez. III, 11 aprile 2017, n. 18 399, ha fatto un po’ il punto delle sue pronunce e dei suoi orientamenti sul tema.

In assenza di una definizione di discarica nel codice dell’ambiente, la Corte dispone che la norma di cui all’ art. 256 comma 3 va letta in correlazione con il D. Lgs. N. 36 del 2003, recante l’ attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti: in particolare l’art. 2, comma1, lett g) di tale decreto fornisce una definizione della nozione di discarica, ossia un’ “area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno”.

Il D. Lgs. n. 36 del 2003 indica dunque per alcune attività lecite di deposito di rifiuti limiti temporali la cui scadenza comporta la loro qualificazione come attività di discarica, che può essere abusiva e pertanto penalmente rilevante qualora manchi l’apposita autorizzazione rilasciata ai sensi degli artt. 8, 9, 10 del medesimo decreto.
Il legislatore non indica invece come differenziare le condotte di deposito di rifiuti illecite fin dall’origine, quali appunto abbandono di rifiuti o deposito incontrollato, dalle condotte più severamente sanzionate di realizzazione o gestione di discarica abusiva.

Nella sentenza in commento, la Corte sembra voler porre come principio di diritto un unico criterio distintivo tra discarica e abbandono di rifiuti, quello della mera occasionalità della condotta, tuttavia finisce con il fare riferimento a un ventaglio più ampio di modalità e circostanze della condotta da valutare ai fini di una corretta distinzione tra la fattispecie di cui all’art. 256 comma 2 e la fattispecie di cui al comma seguente.
La Cassazione precisa infatti che la discarica richiede una condotta abituale, ossia plurimi conferimenti, ma ammette che il reato di discarica abusiva possa configurarsi anche mediante “una azione ma strutturata, anche se in modo grossolano, e chiaramente finalizzata alla definitiva collocazione dei rifiuti in loco”, venendo così in rilievo elementi già valorizzati nelle precedenti pronunce di legittimità, ossia la definitività della collocazione, il degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza dei rifiuti, la considerevole quantità dei rifiuti depositati e dello spazio occupato.

Da ultimo, su specifico motivo di ricorso dedotto dal ricorrente, i giudici di legittimità affermano che il presupporre, per la configurabilità del reato di realizzazione di discarica abusiva, la necessità di effettuazione di opere finalizzate al suo funzionamento escluderebbe irragionevolmente dall’ambito di applicazione della disposizione sanzionatoria i casi in cui non venga eseguita nessuna opera, poiché il sito presenta già tutte le caratteristiche per essere utilizzato quale ricettacolo di rifiuti: l’eventuale realizzazione di opere può confermare la destinazione dell’area a discarica ma non costituisce una condizione necessaria.

L’elaborazione di un parere legale sulla gestione dei rifiuti, effettuato preventivamente, consente la gestione del rischio correlato alle corrette modalità di pianificazione ed intervento delle operazioni aziendali, spesso con ricadute potenziali a livello di responsabilità dell’ente.

Se ti serve assistenza sulla interpretazione delle norme in materia di rifiuti, contattaci per una consulenza ad elevata specializzazione tecnica, ritagliata ed adattata agli obiettivi di business della tua impresa.

Il ruolo dell’avvocato nella gestione a posteriori della crisi aziendale, connessa alla apertura di un procedimento penale in tema di rifiuti è fondamentale e richiede un approccio strategico.

In materia ambientale, affidarsi ad un esperto influisce significativamente sugli esiti delle situazioni di crisi, spesso determinando la differenza tra una confisca, una condanna penale, una sanzione amministrativa, una assoluzione con formula piena o l’estinzione del reato tramite oblazione.

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deposito incontrollato rifiuti sanitari pericolosi

Deposito incontrollato di rifiuti sanitari pericolosi

L’art. 256 comma 2 del d. lgs. n. 152 del 2006 sanziona con le pene di cui al comma 1 i titolari di imprese e i responsabili di enti che effettuino un deposito incontrollato di rifiuti.
E’ ormai pacifico che un deposito temporaneo irregolare, ossia in violazione delle condizioni dettate dall’art. 183 comma 1 lett. bb), integri proprio il reato di deposito incontrollato, anche se, data l’identità di trattamento sanzionatorio, viene spesso qualificato come stoccaggio non autorizzato e quindi come gestione illecita di rifiuti ai sensi dell’art. 256 comma 1.

L’art. 256 comma 6 prevede, invece, una figura di reato speciale per chiunque effettui il deposito temporaneo di rifiuti sanitari pericolosi in violazione delle pertinenti disposizioni contenute nel D. P. R. n. 254 del 2003.

Viene dunque in rilievo l’art. 8 del citato D.P.R., ove vengono prescritte per il deposito temporaneo, oltre che per la raccolta e il trasporto, particolari modalità di imballaggio e di etichettatura dei rifiuti e soprattutto vengono indicati limiti temporali e quantitativi inferiori a quelli contemplati dalla disciplina generale del d. lgs. n. 152 del 2006.

Inoltre la fattispecie speciale di deposito incontrollato di rifiuti sanitari pericolosi, diversamente da quella generale ai sensi dell’art. 256 comma 2, contempla l’ipotesi di degradazione del reato in illecito amministrativo qualora il quantitativo non superi non superi i 200 L o quantità equivalenti.

Da ultimo, la summenzionata previsione e la formulazione dell’art. 256 comma 6, con riferimento all’utilizzo del termine “chiunque”, sembrano escludere che ai fini della fattispecie speciale di cui al comma 6 sia rilevante la qualifica del soggetto agente, ossia se privato cittadino o imprenditore, come avviene per la fattispecie generale ai sensi degli articoli 255 comma 1 e 256 comma 2.

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Tribunale superiore delle acque pubbliche

Cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche

Nell’ambito di opere suscettibili di influire sul normale deflusso e convogliamento delle acque di un rio nella città di Camogli, il TAR di Genova ha dichiarato con sentenza n. 308 della Sezione Prima in data 11 aprile 2017, inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione.

In questi casi infatti, risulta necessario rivolgersi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, presso il quale opporsi a provvedimenti amministrativi anche se questi non sono stati emanati da autorità preposte alla tutela delle acque: basta che essi abbiano come oggetto l’utilizzazione di beni del demanio idrico.

Questo si ricollega anche ad una precedente pronuncia del Consiglio di Stato, con cui si identificava l’importanza dell’art. 143 del R.D. n. 1775 dell’11 dicembre 1933, che delinea il criterio di riparto con esclusivo riferimento all’oggetto del provvedimento impugnato (sez. V, 11 luglio 2016, n. 3055).

I ricorrenti sono addirittura giunti a proporre che il medesimo provvedimento potesse essere assoggettato ad un duplice regime di impugnazione, andando a violare i principi della concentrazione della tutela giurisdizionale e soprattutto quello di certezza delle situazioni giuridiche.

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