inquinamento atmosferico

Inquinamento atmosferico

L’inquinamento atmosferico è l’oggetto della disciplina legislativa di cui alla Parte Quinta del Codice dell’Ambiente, che all’art. 268 lo definisce come “ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”.

Il perno del sistema normativo in materia di tutela contro l’inquinamento atmosferico è rappresentato dal regime autorizzatorio regolato principalmente dagli artt. 269 e 272: il primo riguarda il regime autorizzatorio ordinario, mentre il secondo il regime autorizzatorio semplificato, che si applica agli impianti e alle attività elencati nella parte I dell’Allegato IV alla Parte Quinta.

Con il D. Lgs. n. 128 del 29 giugno 2010 sono state soppresse le disposizioni dell’art. 269 che contemplavano numerose esclusioni, tra le quali, ad esempio, quella riguardo lo svolgimento “in modo non occasionale ed in luogo a ciò adibito, ma in assenza di impianto, di attività di lavorazione, trasformazione o conservazione di materiali agricoli, le quali producano emissioni, o di attività di produzione, manipolazione, trasporto, carico, scarico o stoccaggio di materiali pulverulenti, salvo che tali attività ricadano tra quelle previste dall’art. 272 comma 1”: queste attività dunque sono ora sottoposte ad obbligo di autorizzazione, secondo il regime ordinario oppure semplificato qualora ricomprese nel citato elenco.

Occorre precisare che tale disciplina generale non si applica agli impianti di incenerimento o coincinerimento di rifiuti, nonché agli altri impianti di trattamento termico di rifiuti, i cui valori limite e le altre prescrizioni sono fissati nell’ autorizzazione di cui all’art. 208, e che per gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale tale provvedimento assorbe, tra le altre, anche l’autorizzazione alle emissioni in atmosfera sia ai fini della costruzione che dell’esercizio.

Inoltre la normativa in tema di circolazione veicolare, che costituisce una significativa fonte di inquinamento dell’aria, è contenuta nel Codice della Strada e nel d. lgs. n. 66 del 21 marzo 2005 per quanto concerne le caratteristiche di qualità dei combustibili.

Altro perno della disciplina generale di contrasto all’inquinamento atmosferico è la previsione di valori limite di emissioni, espressi come fattore di emissione, concentrazione, percentuale o flusso di massa di sostanze inquinanti nell’aria che non deve essere superato.

Ai sensi dell’art. 271 i valori di emissioni sono contenuti negli Allegati I, II, III e V alla Parte Quinta, devono essere aggiornati al variare delle migliori tecniche disponibili tramite decreto del Ministero dell’ambiente di modifica e integrazione degli allegati suddetti e l’autorizzazione e i piani e i programmi di qualità dell’aria previsti dal D. Lgs. n. 155 del 13 agosto 2010 possono stabilire valori limite più restrittivi.

Le descritte strategie di tutela contro l’inquinamento atmosferico sono presidiate da sanzione penale: integra infatti un reato contravvenzionale punito con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda la condotta di chi in assenza della necessaria autorizzazione esercisce uno stabilimento o anche solo ne inizia l’installazione, quindi senza che l’attività inquinante abbia avuto neppure effettivo inizio, come precisato dalla Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2012, n. 192), con un’anticipazione dell’intervento penale alla repressione delle condotte solo prodromiche alla messa in pericolo del bene giuridico.

Al pari è comminata la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda per colui che nell’esercizio di uno stabilimento viola i valori limite di emissione stabiliti dagli Allegati alla Parte Quinta o quelli più restrittivi fissati dall’autorizzazione e/o dai piani e dai programmi di qualità dell’aria, tuttavia l’art. 279 comma 5 dispone che si applica sempre la pena dell’arresto fino ad un anno se il superamento dei valori limite determina anche il superamento dei valori obiettivo di qualità dell’aria.
Tali fattispecie di reato fanno entrambe riferimento ad un’attività connessa ad uno stabilimento, ovvero ad un sistema unitario e soprattutto stabile.

Nei casi in cui esso difetti, condotte di inquinamento dell’aria possono essere comunque sanzionate ai sensi dell’art. 674 c.p., in merito al quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha sancito che “non è sufficiente ad integrare la fattispecie l’idoneità delle emissioni a recare disturbo o fastidio, occorrendo invece la puntuale e specifica dimostrazione che tali emissioni superino gli standards fissati dalla legge”, in virtù della condivisibile considerazione che il riferimento alla norma di cui all’art. 844 c.c. ai fini dell’individuazione dei “casi non consentiti dalla legge” comporta un’ evidente violazione del principio di tipicità (Cass. pen., sez. III, 08 maggio 2014, n. 18896).

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Impianti eolici regione Campania

Impianti eolici regione Campania

La Settima Sezione del TAR Campania di Napoli, con l’ordinanza n.1773 del 1 aprile 2017, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale di una norma regionale della L.R. Campania n. 6/2016, ed in particolare l’art. 15 commi 3 e 4.

Il tema della normativa è la moratoria delle autorizzazioni uniche in materia eolica.

Nel caso di specie, la Giunta regionale ha rigettato la richiesta di rilascio di due autorizzazioni uniche relative alla costruzione e all’esercizio d’impianti di produzione di energia elettrica alimentata da fonte eolica in agro, nonostante le rispettive conferenze di servizi si fossero concluse con esito positivo.

La disposizione, di cui si dubita la legittimità costituzionale, prevede l’inibizione del potere autorizzativo in materia di impianti ad energia eolica in attesa che vengano adottate le deliberazioni regionali in materia di localizzazione e impatto ambientale (previste dal Dlgs. n. 28/2011 e dal D.M. n. 47987/2010).

La questione sollevata è ascrivibile ad un carattere dirimente, poiché l’atto impugnato costituisce una diretta applicazione della disposizione di legge regionale contestata.

La disciplina autorizzativa di tali impianti è imperniata sul principio di semplificazione e celerità, anche in applicazione della normativa comunitaria, stabilendo così che il margine di intervento riconosciuto alle Regioni in materia non tolleri assolutamente limitazioni all’installazione di impianti di produzione di energia alternativa.

La norma sollevata invece stabilisce una moratoria indiscriminata che eccede dalla competenza regionale, andando ad intaccare il principio statale di tempestività del procedimento autorizzatorio.

Le norme violate sono quindi l’art. 117 Cost. terzo comma, per ciò che riguarda l’eccedenza della competenza regionale a discapito di quella statale.

Inoltre, la detta disposizione risulta in contrasto con gli artt. 41 e 97 della Costituzione, andando ad intaccare la libera iniziativa economica e non trovando giustificazioni nel buon andamento dell’amministrazione.

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miscelazione rifiuti pericolosi

Miscelazione di rifiuti e corte costituzionale

La recente sentenza della Corte Costituzionale 12 aprile 2017, n. 75, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, L. n. 221/2015 e, di conseguenza, del comma 3-bis dell’art. 187 del Testo Unico ambientale.

L’art. 187 comma 1 prevede per la miscelazione rifiuti che “è vietato miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi. La miscelazione comprende la diluizione di sostanze pericolose”, mentre al comma 2 stabilisce che “in deroga al comma 1, la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali, può essere autorizzata” con le procedure di cui agli articoli 208, 209 e 211 a condizione che l’operazione di miscelazione non rechi pericolo per la salute dell’uomo o pregiudizio all’ambiente, non accresca l’impatto negativo della gestione dei rifiuti e sia conforme alle migliori tecniche disponibili.

La L. 28 dicembre 2015, n. 211, ha aggiunto al testo dell’art. 187 il comma 3-bis, con il quale, date le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, viene conseguentemente precisato, sempre per quanto concerne la miscelazione rifiuti, che “le miscelazioni non vietate in base al presente articolo non sono sottoposte ad autorizzazione e, anche se effettuate da enti o imprese autorizzati ai sensi degli articoli 208, 209 e 211, non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge”.

Il nuovo comma ha quindi liberalizzato espressamente la miscelazione rifiuti tra rifiuti pericolosi con uguale caratteristica di pericolosità e quelle tra rifiuti non pericolosi e ha sancito l’impossibilità di sottoporre tali operazioni a limitazioni e/o prescrizioni in sede autorizzatoria.

Avverso tale modifica legislativa ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Costituzionale la Regione Lombardia, sollevando ben 5 questioni di costituzionalità, delle quali la prima, ossia l’illegittimità per violazione degli articoli 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione alla Direttiva 2008/98/CE, è quella che nelle argomentazioni svolte dalla Corte ha ricevuto maggior approfondimento rispetto alle altre, che riguardano invece il riparto di competenze legislative e amministrative tra Stato e Regioni.

I giudici costituzionali, ritenendo che, ai sensi delle definizioni contenute nell’art. 3 della Direttiva 2008/98/CE, la miscelazione di rifiuti rientri nel concetto di trattamento, affermano che la norma impugnata si pone in contrasto con l’art. 23 della Direttiva, secondo cui “gli Stati membri impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente”.

Pertanto ogni operazione di miscelazione rifiuti, secondo i dicta della Corte Costituzionale, deve essere svolta previa autorizzazione.

La sentenza ha destato qualche perplessità in dottrina. Tuttavia, se da una parte possono ritenersi marginali le osservazioni in merito alla mancanza del termine “miscelazione” nella traduzione italiana degli allegati I e II della Direttiva ( che alla voce D12 riporta nella versione inglese “ blending or mixing prior to submission to any of operations numbered D1 to D12” e in quella italiana “raggruppamento preliminare”) e quindi anche negli allegati B e C alla Parte IV del Testo Unico, che ne costituiscono la trasposizione a livello nazionale, ed anche i dubbi circa l’opportunità di riferimenti della Corte a norme in tema di gestione di discariche e in tema di AIA, dall’altra la Consulta non valuta adeguatamente che le operazioni di miscelazione sono specificamente considerate dalla normativa comunitaria in discorso all’art. 18 “Divieto di miscelazione dei rifiuti pericolosi”, ove si prescrive che, salva la possibilità di deroga per gli enti e le imprese autorizzati a norma dell’art. 23, “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che i rifiuti pericolosi non siano miscelati con altre categorie di rifiuti pericolosi o con altri rifiuti, sostanze o materiali “, senza dunque alcun accenno al divieto di miscelazione rifiuti tra rifiuti non pericolosi in assenza di autorizzazione.

In conclusione, nonostante anche il solo combinato disposto dei primi due commi dell’art. 187 sembri affermare che le operazioni di miscelazione tra rifiuti pericolosi con uguale caratteristica di pericolosità e quelle tra rifiuti non pericolosi non siano soggette ad autorizzazione, appare comunque prudenzialmente opportuno conformarsi all’interpretazione dell’art. 187 resa dalla Consulta che -non senza qualche nota paradossale- dispone “in base alla direttiva n. 2008/98/CE esistono miscelazioni vietate (art. 18, paragrafo 1), ma autorizzabili in deroga (art. 18, paragrafo 2), e miscelazioni non vietate (non in deroga), ma comunque soggette ad autorizzazione in quanto rientranti tra le operazioni di trattamento dei rifiuti (art. 23)”.

Occorre infatti ricordare che qualsiasi attività di gestione dei rifiuti in assenza di autorizzazione è condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 256 del D.lgs. 152/2006.

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Ostensione dei formulari di identificazione rifiuti

Ostensione dei formulari di identificazione rifiuti

La Terza Sezione del TAR per la Sicilia di Catania ha stabilito, con la sentenza n. 715 del 5 aprile 2017, che è sempre ammissibile l’ostensione dei formulari di identificazione dei rifiuti, in quanto rientranti nella nozione di informazione ambientale ex art. 2 Dlgs. 195/2005.

Nel caso di specie, la ricorrente aveva partecipato ad una gara di appalto per il servizio di locazione e pulizia spurgo di bagni mobili ecologici in occasione di una festa patronale, arrivando al secondo posto.

Successivamente aveva presentato istanza di accesso alla documentazione relativa alla procedura selettiva, sulla base dei principi di trasparenza amministrativa ed amministrativa ambientale.

Tuttavia, il Comune ha negato l’accesso ad alcuni atti per ragioni di riservatezza, in quanto l’aggiudicatario del bando aveva richiesto la non divulgazione dei propri dati sensibili.

Il massimo giudice amministrativo, riprendendo anche dei precedenti della medesima sezione (sent. n. 2936 del 14.11.2016), ha stabilito l’ostensione dei formulari di identificazione dei rifiuti perché si tratta di ipotesi speciale (informazione ambientale) , per la quale non solo non è necessario dimostrare un interesse qualificato, ma è altresì ammessa una forma di controllo dell’operato dell’amministrazione.

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riciclo pneumatici usati

Riciclo pneumatici: pneumatici usati e fuori uso

Un indirizzo ormai consolidato della Corte di Cassazione opera una distinzione in riferimento al riciclo pneumatici tra pneumatico fuori uso e pneumatico usato ricostruibile.

Il catalogo europeo dei rifiuti istituito con la Decisione 1994/3/CE e trasposto in sede nazionale nell’originario allegato A al D. Lgs. n. 22/1997 prevedeva alla voce 16.01.03 la dicitura “pneumatici usati”.

La Decisione 2000/532/CE ha ampiamente modificato il catalogo europeo dei rifiuti e alla voce 16.01.03 ha inserito la nuova dicitura “pneumatici fuori uso”. Tale modifica è stata recepita nel nostro ordinamento interno con la L. n. 179/2002 che ha apportato i necessari cambiamenti all’allegato A del D. Lgs. n. 22/1997.

Inoltre, in esecuzione della L. n. 179/2002, e “in particolare, dei commi 1, lettera l), e 2) dell’art. 23, che modificano la descrizione del codice 16 01 03 dell’allegato A al D. Lgs. n. 22/1997”, è stato emanato il D. M. 9 gennaio 2003, il quale sopprime la voce 10 punto 3 “pneumatici ricostruibili” nell’elenco delle categorie di rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero contemplate dal D.M. 5 febbraio 1998, lasciando invece inalterata la voce 10 punto 2, concernente “gli pneumatici non ricostruibili, la camere d’aria non riparabili e altri scarti di gomma”.

A fronte dei cambiamenti occorsi al quadro normativo la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 25207 del 26 giugno 2012 e n. 25358 del 27 giugno 2012, ha ritenuto di dover inferirne una duplice classificazione degli pneumatici, distinguendo i pneumatici “fuori uso”, che costituiscono sicuramente un rifiuto, da quelli “usati”, ossia passibili di ricostruzione del battistrada e ancora dotati delle loro proprie caratteristiche strutturali, da considerarsi invece “non rifiuti” e di conseguenza liberamente compravendibili come beni.

Come precisano i giudici di legittimità nella seconda delle due sentenze citate, indipendentemente dalle valutazioni e dagli accertamenti in merito all’astratta riutilizzabilità, ai sensi della nozione di rifiuto di cui all’art. 183 comma 1 lett. a) la natura di rifiuto degli pneumatici usati non può certamente essere esclusa qualora risulti obiettiva la volontà di disfarsene da parte del detentore.

La Corte afferma perciò che la distinzione ai fini della classificazione come rifiuto o come bene degli pneumatici, sulla base dell’astratta suscettibilità di un processo di ricostruzione e pertanto di un riuso economico non opera, ad esempio, nei casi di condotte di abbandono, ma ha indubbia rilevanza ai fini della qualificazione delle attività di ricostruzione e di quelle preliminari quali stoccaggio e trasporto e quindi della identificazione degli obblighi previsti per lo svolgimento delle attività medesime: il trasporto dal gommista al ricostruttore dei pneumatici usati può dunque essere svolto da soggetti non iscritti all’Albo dei gestori ambientali, proprio perché non si tratta di rifiuti; uguale discorso vale per lo stoccaggio e la non applicabilità dei limiti temporali o qualitativi del deposito temporaneo.

La Corte di Cassazione, in merito al riciclo pneumatici, indica un iter procedurale e i soggetti gravati dai relativi oneri per la classificare lo pneumatico usato come ricostruibile e per gestire quelli che risultano invece “fuori uso”: “nelle ipotesi in cui sia manifestamente evidente l’impossibilità di procedere ad una ricostruzione, il gommista detentore (in seguito all’attività di ricambio per sostituzione sul veicolo) ha l’onere (con le relative responsabilità, anche penali) di conferirlo come rifiuto ad un operatore autorizzato […]. In tutti gli altri casi il pneumatico può essere consegnato, quale merce, al ricostruttore ed a questo spetta la valutazione dell’idoneità alla ricostruzione mediante le opportune indagini tecniche, a seguito delle quali egli è tenuto ad avviare gli pneumatici fuori uso a recupero dei materiali, a recupero energetico ovvero a smaltimento” (Cass. Pen., sez. III, 26 giugno 2012, n. 25207).

In dottrina sono stati avanzati molti dubbi in merito all’orientamento della Corte. Si sottolinea infatti che la categoria del pneumatico usato ricostruibile non è contemplata dalle norme in materia di rifiuti e che sussistono notevoli asimmetrie con la disciplina nazionale di settore che regola il sistema della c.d. responsabilità estesa dei produttori e importatori di pneumatici ai sensi dell’art. 228 TUA.

In particolare il D.M. 11 aprile 2011, n. 82, che detta proprio il “Regolamento per la gestione degli pneumatici fuori uso ai sensi dell’art. 228 TUA”, contempla all’art. 1 una serie di esclusioni tra cui però non si fa riferimento alcuno agli pneumatici usati ricostruibili e all’art. 2, nel fornire la definizione di pneumatico fuori uso, esclude da tale categoria non già gli pneumatici ricostruibili, bensì solamente quelli già fatti oggetto di ricostruzione o di successivo riutilizzo.

Dall’altra parte l’art. 228 TUA parla di “finalità di ottimizzare il recupero dei pneumatici fuori uso e di ridurne la formazione anche attraverso la ricostruzione” così affermando che nella fase pre-ricostruzione il rifiuto non si è ancora originato.

Ad ogni modo, nonostante le indicazioni contrastanti che sembrano provenire dalla normativa, la Corte di legittimità ha chiarito, nella recente sentenza sez. III, 31 marzo 2017, n. 16432, che i pneumatici usati sono “oggetto di una disciplina di natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria dei rifiuti e l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne invoca l’applicazione”.

In conclusione, agli pneumatici usati ricostruibili si applica un regime di favore più di matrice giurisprudenziale che legislativa.

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