La Sezione V del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1089 pronunciata in data 8 marzo 2017 ha ben delineato l’applicazione del principio noto come “chi inquina paga”.
Nel caso in questione l’appellante ha lamentato la violazione del suddetto principio, assumendo che esso presupponga l’accertamento del rapporto di causalità e dell’elemento soggettivo, quantomeno nella forma della colpa.
Il massimo giudice amministrativo puntualizza che l’Amministrazione non può imporre, a coloro che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, attività di risanamento o di recupero.
Tuttavia la stessa ha ribadito che la messa in sicurezza del luogo costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nella categoria delle precauzioni che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire danni ambientali.
In questo caso la messa in sicurezza del sito, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, ma solo precauzionale, prescinde dall’accertamento del dolo o della colpa.
Infine viene enunciato come il principio “chi inquina paga” non richiede sulla base del diritto dell’Unione, la prova dell’elemento soggettivo.
La direttiva di riferimento (2004/35/CE) configura “la responsabilità ambientale come responsabilità (non di posizione) ma, comunque, oggettiva, il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni legislative nazionali che non facciano riferimento a dolo o alla colpa, come nel caso delle norma che prevede la possibilità per l’Amministrazione di prescrivere gli interventi di messa in sicurezza dei siti contaminati”.
Nel Catalogo europeo dei rifiuti, come è risaputo, i rifiuti sono identificati con codici assoluti e con codici non assoluti.
A quelli identificati con codici assoluti viene assegnato un codice CER sulla base della loro origine ed automaticamente vengono classificati come rifiuti pericolosi o come rifiuti non pericolosi, senza che nessun accertamento in proposito sia necessario.
Per altri rifiuti, invece, viene prevista una coppia di codici, detti anche “codici a specchio”, e tali rifiuti possono essere classificati come non pericolosi oppure come pericolosi a seconda che le sostanze pericolose cui si fa specifico o generico riferimento siano presenti o meno nel rifiuto in maniera tale da conferirgli una o più delle caratteristiche di pericolosità di cui all’All. I alla Parte Quarta del D. Lgs. n. 152 del 2006.
Su quali siano i criteri di accertamento da seguire per una corretta attribuzione del codice CER in caso di “voce a specchio”, soprattutto riguardo il criterio dell’esaustività dell’accertamento, è in corso un dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che coinvolge anche le amministrazioni e le istituzioni competenti in materia di rifiuti: un orientamento, che si può definire “probabilistico”, ritiene che deve essere indagata e valutata la sola presenza delle sostanze che, date le caratteristiche del processo da cui si genera il rifiuto, con un più elevato livello di probabilità potrebbero essere presenti nel rifiuto medesimo; un altro orientamento, che si può invece chiamare “della certezza”, sostiene che una corretta individuazione del codice può derivare solo dalla conoscenza certa della composizione del rifiuto e che, pertanto, occorre ricercare e determinare la concentrazione di qualsiasi sostanza pericolosa comunque presente nel rifiuto, senza limitazione alcuna.
A loro sostegno, i fautori della tesi “probabilistica” valorizzano i cambiamenti intervenuti nella normativa comunitaria, in particolare nella Decisione 2014/955/UE, secondo cui “l’iscrizione di una voce nell’elenco armonizzato di rifiuti è contrassegnata come pericolosa, con un riferimento specifico o generico a “sostanze pericolose”, è opportuna solo quando questo rifiuto contiene sostanze pericolose pertinenti che determinano nel rifiuto una o più delle caratteristiche di pericolo”: con l’inserimento dell’ aggettivo “pertinente” s’intenderebbe limitare la determinazione analitica alle sostanze pericolose pertinenti in base al processo produttivo del rifiuto.
Tuttavia, come non infrequentemente accade, si pongono dei problemi in merito all’esattezza della traduzione italiana della Decisione rispetto alle versioni redatte nelle lingue base dell’UE (francese ed inglese) che, in caso di dubbio o di versioni contrastanti, fanno fede: l’aggettivo pertinente non si rinviene nel testo francese (substances dangereuses correspondantes qui lui confèrent une o plusieurs des propriétés danguereuses), mentre in quello inglese si parla di “relevant hazardous substances that cause the waste to display one or more of hazardous properties”.
Ad ogni modo, i criteri di accertamento e di attribuzione del codice CER per le “voci a specchio” sono oggetto di una specifica normativa di carattere nazionale (art. 13 del D. L. 91 del 2014, convertito nella L. 116/2014) che ha inserito una precipua premessa sulla classificazione, all’elenco dei rifiuti contenuto nell’allegato D alla Parte Quarta del D. Lgs. 152 del 2006.
In virtù di essa, per stabilire se il rifiuto sia pericoloso o non pericoloso, occorre individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore, la conoscenza chimica del processo e il campionamento e l’analisidel rifiuto; inoltre viene prevista, in nome del principio di precauzione, una presunzione di pericolosità nei casi in cui le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o sono state rilevate dalle analisi solo in modo aspecifico.
Tale presunzione di pericolosità nei casi di dubbio induce a concludere che la pericolosità di un rifiuto non possa essere esclusa in virtù di considerazioni/analisi riferite unicamente ad alcune sostanze pericolose.
I sostenitori della tesi probabilistica ritengono infatti che tale disciplina sia da considerarsi non applicabile poiché incompatibile con la Decisione della Commissione, come da questi ultimi interpretata.
Dall’altra parte i fautori dell’orientamento opposto sottolineano che, una volta chiarito il corretto significato da attribuire alla traduzione italiana della Decisione, “appare evidente che la normativa comunitaria stabilisce quando una voce a specchio debba essere considerata rifiuto pericoloso, ma non detta in proposito regole particolari per l’accertamento. E pertanto, se un paese detta queste regole (come ha fatto con la L. N. 116 del 2014) non sembra che si tratti di disposizioni “incompatibili””.
Inoltre fanno osservare che la Commissione europea, successivamente all’entrata in vigore della Decisione 2014/955/UE, ha predisposto in inglese un progetto di “Documento di orientamento sulla definizione e classificazione dei rifiuti pericolosi” e nel terzo capitolo si occupa proprio della procedura per la classificazione dei rifiuti individuati con codici a specchio dettando norme del tutto analoghe a quelle nazionali sopra richiamate.
Infine si segnala che, pur in presenza di alcune contrastanti decisioni da parte delle corti di merito, la Corte di Cassazione, nella sentenza sez. III, 9 novembre 2016, n. 46897, richiamando espressamente le norme introdotte con il D. L. 91 del 2014 afferma che “dinanzi ad un rifiuto con codice “a specchio”, il detentore sarà obbligato ad eseguire le analisi (chimiche, microbiologiche, ecc.) necessarie per accertare l’eventuale presenza di sostanze pericolose, e l’eventuale superamento delle soglie di concentrazione; solo allorquando venga accertato, in concreto, l’assenza, o il mancato superamento delle soglie, di sostanze pericolose, il rifiuto con codice “a specchio” potrà essere classificato come non pericoloso. Aderendo alla diversa prospettiva dedotta dal ricorrente, invece, ne deriverebbe che il detentore di un rifiuto con codice “a specchio” potrebbe classificarlo come non pericoloso, e di conseguenza gestirlo come tale, in assenza di analisi adeguate; ma tale interpretazione, oltre ad essere in contrasto con gli obblighi di legge, è evidentemente eccentrica rispetto all’intero sistema normativo che disciplina la gestione del ciclo dei rifiuti, ed al principio di precauzione ad esso sotteso”.
Cass. Pen., sez. III, 21 settembre 2016, n. 46170; Cass. Pen., sez. III, 31 gennaio 2017, n.15865
Le sentenze in commento sono le prime sentenze della Cassazione riguardo il reato di inquinamento ambientale di cui all’art. 452-bis c.p.
Tali pronunce, ancorché emesse in sede cautelare, forniscono ad ogni modo importanti “coordinate ermeneutiche” per una più sicura applicazione della nuova fattispecie di reato.
– Viene chiarito che il requisito dell’abusività della condotta sussiste, al pari di quanto già risulta pacifico per altre ipotesi di reato ambientale extra codicem, quando la medesima viene posta in essere non solo in assenza di autorizzazione o sulla base di autorizzazione scaduta o palesemente illegittima, ma anche “in violazione di leggi statali o regionali, ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale, ovvero di prescrizioni amministrative”.
– Il requisito dimensionale, secondo cui l’alterazione deve interessare “porzioni estese o significative”, si applica solo al suolo e al sottosuolo e non alle acque e all’aria, data la più accentuata diffusività di queste ultime (in particolare su questo punto sentenza n. 15865/2017 che ritiene rilevante anche un interessamento circoscritto del corpo idrico).
– I concetti di “compromissione” e “deterioramento”, in linea di continuità con l’indirizzo esegetico in tema di danneggiamento idrico ai sensi dell’art. 635 c.p., costituiscono di fatto “un’endiadi utilizzata dal legislatore al fine di coprire ogni possibile forma di “danneggiamento”, strutturale ovvero funzionale, delle acque, dell’aria, del suolo o del sottosuolo” e quindi “la ridotta utilizzazione del corso d’acqua in conformità alla sua destinazione quale conseguenza della condotta è perciò già sufficiente a integrare il “danno” che la minaccia della sanzione penale intende prevenire”.
– Quanto alla natura “significativa” e “misurabile” della compromissione o del deterioramento, oggetto di dubbi e di dibattiti in dottrina, è stato approfondito il rapporto con i parametri imposti dalle diverse discipline del settore, affermando che “il superamento non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile”, anche se, come appare intuitivo, “tali parametri rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi come richiesto dalla legge mentre tale condizione, ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti”.
Infine la sentenza n. 46170 del 2016 respinge l’impostazione del Tribunale che richiede ai fini dell’integrazione della figura di reato in commento la “tendenziale irrimediabilità”, mentre la sentenza n. 15865 del 2017 aggiunge che il reato ambientale sussiste sia nei casi in cui la reversione del fenomeno dipenda dall’opera dell’uomo sia nei casi in cui sia conseguenza della capacità dell’ambiente di autoemendarsi.
Entrambe le pronunce asseriscono che l’eventuale reversibilità o meno può, invece, assumere rilievo come elemento di distinzione tra il delitto in esame e quello più severamente punito di disastro ambientale di cui all’art. 452-quater c.p.”.
Questioni interessanti trattate dalla sentenza n. 15865/2017
Proprio con riferimento al carattere non irreversibile della contaminazione necessaria ai fini dell’ ipotesi di cui all’art. 452-bis c.p. la Cassazione sottolinea che “fin quando tale irreversibilità non si verifica le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione non costituiscono “post factum” non punibile”, ossia “è dunque possibile deteriorare e compromettere quel che lo è già, fino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo art. 452-quater c.p.; non esistono zone franche intermedie tra i due reati”.
Inoltre la parte ricorrente lamenta che le condotte di scarico, anche se extratabellare, produttive dell’inquinamento non costituiscono reato in quanto si tratta di sostanze non ricomprese nella tabella 5 dell’allegato 5 del TUA e che, pertanto, non essendo neanche integrata la soglia del pericolo astratto, non può esservi in alcun modo danno, secondo una ricostruzione del sistema sanzionatorio penale a tutela dell’ambiente come un sistema c.d. “a tutele crescenti”.
I giudici di legittimità rispondono che tale tesi è “metodologicamente e dogmaticamente errata” dal momento che “restringe, di fatto, la natura “abusiva” della condotta ai soli casi in cui la causa dell’inquinamento costituisca condotta di per sé già penalmente sanzionata” con indebita esclusione di tutti gli altri casi in cui la condotta sia sanzionata a livello amministrativo o anche solo vietata in modo non cogente.
Il delitto di cui all’art. 452-bis non è, infatti, un reato di pericolo astratto in cui l’incriminazione si fonda su una prognosi di pericolosità a carattere generale ed astratto, ma un reato di danno, quindi causalmente orientato.
Dunque “quello che conta, in ultima analisi, è la sussistenza del nesso causale tra tali violazioni (ossia delle norme o delle prescrizioni pertinenti che disciplinano l’attività del caso), che rendono tipica la “causa”, e l’evento di danno”.
La Corte di Cassazione, sempre in fase cautelare, con la sentenza 15 marzo 2017, n. 18934, ha fornito ancora utili indicazioni in merito alla fattispecie di inquinamento ambientale di cui all’art. 452-bis c.p.
La vicenda storica da cui origina la pronuncia della Corte riguarda l’attività di pesca di tonnellate di esemplari di oloturie (comunemente detti “cetrioli di mare”) nel Mar Ionio e della loro commercializzazione all’estero, in particolare in Oriente, dove sono utilizzate come ingredienti di piatti tipici.
I ricorrenti sottolineano l’inesistenza di uno specifico divieto di pesca delle oloturie e quindi l’assenza del requisito di abusività della condotta ai fini della sussistenza del delitto contestato.
Inoltre rilevano che, come documentato anche nella relazione del C.N.R. – Istituto per l’Ambiente Marino Costiero di Taranto, non vi è letteratura scientifica sulle conseguenze della pesca delle oloturie ed è perciò impossibile quantificare il danno all’ecosistema marino e stimare in termini misurabili il grado di compromissione ambientale e di alterazione dell’equilibrio ecologico.
In merito alla valutazione di abusività della condotta, la sentenza in commento precisa che, sulla base delle considerazioni espresse dalla costante giurisprudenza richiamata, “rientra tra le condotte “abusive” richieste per la configurabilità di alcuni delitti contro l’ambiente l’esercizio di attività dipesca che, seppure non vietata, viene effettuata con mezzi vietati e da soggetti privi dei necessari titoli abilitativi”.
Riguardo l’altro motivo di ricorso, la Corte premette che la competenza del giudice del riesame è verificare la sussistenza del fumus commissi delicti e non decidere anticipatamente sulla questione di merito della prova oltre ogni ragionevole dubbio della sussistenza del fatto di reato e della responsabilità della persona sottoposta a indagini in ordina a tale reato. Pertanto evidenzia che la relazione, pur dando atto dell’assenza di studi specifici volti a quantificare il danno ambientale causato dalla pesca incontrollata di oloturie, descrive il ruolo svolto da tale specie nell’ecosistema quali veri e propri “biorimediatori naturali” del contesto ambientale in cui è inserita e conclude per la concreta possibilità che tale attività possa comportare una grave compromissione della funzionalità dell’ecosistema marino.
In considerazione di ciò, e della quantità del pescato e quindi della dimensione del fenomeno (353.278 kg di prodotto lavorato, pari ad oltre 2.000.000 di esemplari di oloturie vive), nonché del significativo trasferimento dei pescatori tarantini negli ultimi mesi dalle abituali zone di pesca alle zone di confine con la provincia di Lecce, dato da ritenersi indicativo di un concreto depauperamento dei fondali marini, i giudici di legittimità affermano che la condotta presa in esame nel caso di specie è stata giustamente ritenuta produttiva, quanto meno, di una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili (lasciando aperta l’ipotesi di qualificazione del fatto ai sensi del più grave delitto di disastro ambientale ex art. 452-quater c.p.).
Sembra dunque che, a seguito delle prime pronunce della Cassazione, debbano forse essere ridimensionati i timori di una scarsa implementazione a livello pratico delle fattispecie di inquinamento e disastro ambientale a causa della loro indeteminatezza.
Tuttavia occorre aspettare le prime sentenze di merito per valutare correttamente l’opportunità di tali perplessità e anche, anzi soprattutto, di quelle riferite alla probatio diabolica del nesso di causa tra condotta ed evento di danno.
Di fronte al TAR della Campania di Salerno, è stata ribadita la permanenza nell’ordinamento della disciplina del silenzio-assenso prevista dall’art. 13, comma 1, della L. n.394/1991.
Suddetta norma dispone che, per la realizzazione di interventi nei parchi nazionali è richiesto un nulla osta dell’Ente gestore del parco prima del rilascio dei provvedimenti autorizzatori.
In particolare, il primo comma stabilisce che l’Ente ha sessanta giorni per pronunciarsi, decorsi i quali si forma il silenzio-assenso.
In materia, già nel 2016 il Consiglio di Stato aveva avuto modo di confermare come operante tale normativa (Cons. Stato, sez III n.362 17 febbraio 2016).
Il dubbio era sorto per alcune innovazioni introdotte nel 2005 dal D.L. n. 35 (in particolare all’art. 20 L. 241/1990): l’art. 3 dello stesso, aveva stabilito la portata generale dell’istituto del silenzio-assenso nei procedimenti su istanza di parte.
Tuttavia, al di fuori della disciplina venivano posti gli atti e procedimenti riguardanti, tra gli altri, il patrimonio paesaggistico e l’ambiente.
Il massimo giudice amministrativo aveva dunque rilevato che una disposizione legislativa diretta ad estendere la portata dell’istituto di silenzio assenso, non può aver avuto l’effetto contrario di abrogare precedenti previsioni del medesimo istituto.
Per questo motivo, le modifiche apportate dal D.L. n.35/2005 non hanno comportato l’abrogazione di previsioni precedenti di silenzio-assenso.
Si è ritenuto, pertanto, con la sentenza n. 588 del 23 marzo 2017 della Sez. II del sopraddetto TAR, che il silenzio-assenso previsto dall’art. 13, comma 1, L. 394/1991 non sia stato abrogato implicitamente dal D.L. 35/05.