Cambiamenti Climatici e Diritti Umani: il caso Australia
A seguito della decisione sul caso Daniel Billy contro Australia (“Torres Strait Islanders case”), emessa il 23 settembre 2022, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che, non avendo attuato misure di adattamento tempestive e adeguate, l’Australia sta violando i diritti della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici di diversi cittadini australiani residenti nelle isole dello Stretto di Torres.
Nel caso in esame, il Comitato per i diritti umani ha dovuto valutare se l’Australia stesse violando i diritti di otto ricorrenti e dei loro figli ai sensi degli articoli 2, 6, 17 e 27 della CCPR non avendo adottato adeguate misure di adattamento e mitigazione. I ricorrenti appartengono alla minoranza indigena delle Isole dello Stretto di Torres e risiedono su quattro piccole isole basse.
Il fatto che queste isole siano altamente esposte agli impatti negativi del cambiamento climatico e che le vite e le culture dei richiedenti dipendano fortemente dalla disponibilità di risorse naturali limitate e dalla prevedibilità dei fenomeni naturali non sono stati messi in dubbio né contestati.
Il Comitato ha ritenuto la comunicazione ammissibile e ha ritenuto che gli articoli 17 e 27 fossero stati violati.
La Commissione ha ritenuto la richiesta ammissibile.
Un elemento fondamentale dal quale si è partiti è stato lo status di “vittima” dei ricorrenti, che secondo l’articolo 1 del Protocollo opzionale richiede che i ricorrenti siano “colpiti”.
A fronte di ciò, l’Australia aveva sostenuto che i ricorrenti stessero invocando un danno futuro, quindi non (ancora) colpiti da una violazione passata o esistente o da una minaccia ai loro diritti a causa degli impatti climatici.
La Commissione ha respinto con coraggio questa argomentazione sulla base dell’elevato rischio, ovvero l’alta esposizione e l’estrema vulnerabilità, dei ricorrenti agli effetti negativi del cambiamento climatico.
La Commissione ha concluso che il rischio di una lesione dei diritti, “a causa dei presunti gravi impatti negativi che si sono già verificati e sono in corso, è più di una possibilità teorica”.
Inoltre, la questione centrale era se gli impatti climatici, i quali vengono considerati incontestabili e indiscussi, potessero costituire una violazione dei diritti.
Nell’affrontarla, la Commissione ha seguito la seguente logica: quanto più vulnerabili ed esposti sono i ricorrenti, tanto più alto è il loro rischio e tanto più probabile è la violazione dei diritti a causa degli impatti climatici già verificatisi.
La conclusione più significativa è tuttavia quella sul merito, ovvero che non avendo attuato misure di adattamento tempestive e adeguate a proteggere la casa, la vita privata e la famiglia dei ricorrenti, l’Australia ha violato i diritti dei ricorrenti ai sensi degli articoli 17 e 27 della Convenzione.
Le implicazioni giuridiche della decisione del Comitato
In primo luogo, sottolinea chiaramente che gli Stati hanno l’obbligo giuridico positivo di garantire la protezione degli individui sotto la loro giurisdizione contro la violazione dei loro diritti come conseguenza degli impatti negativi dei cambiamenti climatici.
Questo di solito comporta l’adozione di tutte le misure ragionevoli e appropriate per prevenire le violazioni dei diritti. Aggiungendo il requisito “tempestivamente“, la CDU ha incluso anche una dimensione temporale.
In secondo luogo, sulla base di ciò, il Comitato formula una serie di osservazioni sullo standard di cura nell’adozione di tali misure.
In generale, un obbligo giuridico positivo implica l’adozione di adeguati quadri legislativi, istituzionali e fiduciari e l’attuazione di misure efficaci per prevenire qualsiasi violazione dei diritti, compresi quelli causati dagli impatti negativi dei cambiamenti climatici.
L’Australia ha messo in atto misure di adattamento, come stabilito nel Piano regionale di adattamento e resilienza dello Stretto di Torres (2016-2021) e nel programma Torres Strait Seawalls (2019-2023). Ha inoltre investito diversi miliardi di dollari australiani in finanziamenti per il clima con l’obiettivo di raggiungere i risultati dell’adattamento.
Tuttavia, il Comitato ritiene che il ritardo nella costruzione delle infrastrutture di adattamento, in particolare delle dighe marittime aggiornate (che dovrebbero essere completate entro il 2023), abbia portato a effetti negativi sul modo in cui i richiedenti vivono la loro vita.
Ciò è avvenuto in particolare con l’allagamento e l’inondazione dei terreni dei villaggi e delle sepolture ancestrali, la distruzione dei giardini e l’impatto sull’approvvigionamento di sostanze nutritive.
Questo è un punto importante: le misure di adattamento, anche se di portata necessaria, non sono adeguate se arrivano troppo tardi.
La tempestività, quindi, in relazione agli impatti fa quindi parte dello standard di cura che ci si aspetta da un buon governo.
Data la crescente ampiezza, velocità e probabilità con cui i cambiamenti climatici impatteranno su individui e comunità, l’adattamento diventerà sempre più difficile da pianificare con orizzonti temporali lunghi e stanziamenti finanziari limitati.
Tuttavia, lo standard di diligenza nell’adempimento degli obblighi positivi per evitare violazioni dei diritti richiederà agli Stati – a tutti gli Stati – che la pianificazione e l’attuazione dell’adattamento avvengano molto più rapidamente, siano più complete e intersettoriali, oltre che essere commisurate agli scenari scientifici di aumento della temperatura e ricevano una significativa importanza politica e finanziaria.
In altre parole, questa decisione è un segnale di avvertimento per tutti gli Stati: l’adattamento deve entrare nell’agenda politica e i tempi devono essere flessibili e modulabili per attuare le misure più rapidamente e, se necessario, per ampliare ed espandere i programmi di adattamento.
Questa potrebbe essere una scelta difficile. Le misure di mitigazione e di adattamento, infatti, devono essere perseguite (pianificate, finanziate e attuate in modo efficace) allo stesso tempo, poiché l’aumento delle temperature incrementerà il rischio di impatti climatici più negativi.
Sebbene le misure di adattamento abbiano un impatto più “diretto” sulla protezione della vita e dei mezzi di sussistenza delle persone, alla fine sono inutili se non si attenua la causa del problema.
Inoltre, l’adattamento dovrà affrontare una miriade di impatti diversi e cumulativi delle emissioni di gas serra, come nel caso attuale: inondazioni, tempeste, siccità, salinizzazione, sbiancamento dei coralli, erosione del territorio, perdita di risorse e specie marine e terrestri, distruzione di siti culturali, ancestrali e religiosi, acidificazione degli oceani, flussi migratori, danni biologici e danni morali.
Ciò richiede che le misure di adattamento siano un ampio insieme di vari strumenti e iniziative ben progettati e compatibili per aumentare la resilienza, compresa la pianificazione di fronte alla b e all’incertezza.
Infine, l’adattamento ha dei limiti oltre i quali gli impatti dei cambiamenti climatici, spesso improvvisi, diventano ingestibili e causano perdite e danni.
Non tutti gli impatti climatici possono essere mitigati e permane un rischio elevato (sia in termini di probabilità che di entità) per la vita privata, la cultura e la famiglia, nonostante la pianificazione di adattamento più ambiziosa e completa.
In terzo luogo, nel riscontrare una violazione dell’articolo 27, il Comitato riconosce la particolare (“estrema”) vulnerabilità dei ricorrenti, in quanto membri di un gruppo minoritario indigeno, agli impatti negativi del cambiamento climatico. Conclude che “la capacità dei ricorrenti di mantenere la loro cultura è già stata compromessa dalla ridotta vitalità delle loro isole e dei mari circostanti, a causa degli impatti del cambiamento climatico” (paragrafo 8.14).
L’erosione delle terre tradizionali e ancestrali, delle zone di pesca e di coltivazione e la perdita di siti culturali ne hanno ridotto o reso impossibile la pratica.
La costruzione di dighe marittime è considerata un modo per affrontare la minaccia ragionevolmente prevedibile; il suo ritardo equivale a una mancata adozione di misure di adattamento tempestive e adeguate, costituendo una violazione dei diritti individuali dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 27 del CCPR.
Va sottolineato che questo è il primo riconoscimento da parte di un organo delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’obbligo positivo degli Stati di proteggere il diritto distinto e aggiuntivo di un gruppo particolarmente vulnerabile contro gli impatti negativi del cambiamento climatico.
Questa “doppia” protezione ha un significato giuridico nel riconoscere che alcuni gruppi o individui sono più vulnerabili di altri agli impatti dei cambiamenti climatici, a causa del loro stile di vita che è strettamente associato alla terra, alle acque e all’uso delle risorse, anche con mezzi tradizionali.
In quarto luogo, la commissione ha anche considerato una violazione dell’art. 6, il diritto alla vita.
La Commissione ha sottolineato che la protezione di tale diritto richiede che gli Stati adottino misure positive. In questo senso, le parti devono anche garantire il diritto alla vita ed esercitare la dovuta diligenza per proteggere la vita degli individui da privazioni causate da persone o entità, la cui condotta non è attribuibile allo Stato.
L’obbligo degli Stati parti di rispettare e garantire il diritto alla vita si estende alle minacce ragionevolmente prevedibili e alle situazioni di pericolo di vita che possono comportare la perdita della vita.
Gli Stati possono violare l’articolo 6 anche se tali minacce e situazioni non comportano la perdita della vita. Il diritto alla vita comprende anche il diritto degli individui di godere di una vita dignitosa e di essere liberi da atti o omissioni che possano causare la loro morte innaturale o prematura.
Il Comitato ha ricordato che ciò richiede l’adozione di misure per affrontare minacce ragionevolmente prevedibili e situazioni di pericolo di vita.
Tali minacce possono includere gli impatti negativi dei cambiamenti climatici. Il Comitato afferma che il cambiamento climatico e lo sviluppo insostenibile costituiscono alcune delle minacce più pressanti e serie alla capacità delle generazioni presenti e future di godere del diritto alla vita.
Tuttavia, nel caso oggetto d’esame, si giunge alla conclusione che i richiedenti non hanno dimostrato un rischio reale o ragionevolmente prevedibile di pericolo fisico o di estrema precarietà capace di minacciare il loro diritto alla vita, compreso quello alla vita dignitosa. Tuttavia, è importante notare che, sebbene questa volta non sia stata riscontrata alcuna violazione, la Commissione ha chiaramente aperto la porta al riconoscimento di una violazione del diritto alla vita a causa della mancata prevenzione degli impatti del cambiamento climatico.
In quinto luogo, un altro aspetto importante della decisione è l’individuazione di rimedi efficaci.
Non solo, l’Australia è tenuta a risarcire pienamente le persone i cui diritti sono stati violati.
Ciò include un adeguato risarcimento del danno subito, l’avvio di consultazioni significative per condurre una valutazione dei bisogni e un continuo attuamento delle misure necessarie. È importante notare che l’Australia ha anche l’obbligo di “prendere provvedimenti per prevenire violazioni simili in futuro”.
Le lacune della sentenza del Comitato
Il Comitato non spiega quali azioni dovrebbero essere intraprese per adempiere agli obblighi positivi di prevenire future violazioni dei diritti della CCPR.
Tuttavia, come già detto, qualsiasi misura di adattamento deve essere accompagnata da un’ambiziosa azione di mitigazione. Per “prevenire violazioni simili”, sono urgentemente necessarie azioni di mitigazione su scala e ambizione con l’obiettivo di affrontare la causa del problema e non solo azioni di adattamento per rimediare agli effetti.
Tuttavia, la decisione presenta una grave lacuna: il Comitato ha taciuto sulla necessità di misure di mitigazione tempestive e adeguate come “rovescio della medaglia” per adempiere al suo obbligo positivo nei confronti dei richiedenti.
Si tratta di un’occasione persa. Il Comitato si è spinto fino a riconoscere che i trattati internazionali sul clima costituiscono parte del sistema giuridico generale che è rilevante per l’esame di una violazione del CCPR e ha considerato il riferimento ad altri trattati e accordi internazionali appropriato nell’interpretazione del CCPR.
L’Accordo di Parigi
Ciò avrebbe rappresentato un’opportunità per interpretare gli obblighi positivi dello Stato interessato alla luce del consenso globale espresso nell’Accordo di Parigi.
L’Australia è Parte dell’Accordo di Parigi. Nell’esame e nell’interpretazione del CCPR, le disposizioni dell’Accordo di Parigi, in particolare l’articolo 2, paragrafo 1, e l’articolo 4, paragrafo 3, dell’Accordo di Parigi, sono rilevanti come contesto normativo rispetto al quale gli obblighi in materia di diritti umani devono essere compresi.
L’articolo 2, paragrafo 1 (a) dell’Accordo di Parigi stabilisce l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento a 1,5°C. Questo stabilisce uno standard internazionale con importanti implicazioni legali.
Per raggiungere questo obiettivo di temperatura a lungo termine, le Parti dell’Accordo di Parigi si sono impegnate collettivamente a raggiungere il prima possibile il picco globale delle emissioni di gas a effetto serra, riconoscendo che ciò potrebbe richiedere più tempo per i Paesi in via di sviluppo, intraprendendo successivamente rapide riduzioni in conformità con la migliore scienza disponibile, in modo da raggiungere un equilibrio tra le emissioni antropogeniche dalle fonti e l’assorbimento da parte dei pozzi nella seconda metà di questo secolo (articolo 4, paragrafo 1), la cosiddetta “neutralità climatica” o “emissioni nette zero”.
Il Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) del 2021, afferma che i percorsi coerenti con il contenimento degli aumenti di temperatura a 1,5°C devono raggiungere almeno emissioni globali nette di CO2 intorno al 2050.
È importante notare che il contributo determinato a livello nazionale rifletterà la “massima ambizione possibile” di ciascuna parte (articolo 4, paragrafo 3). L’espressione “massima ambizione possibile”, contenuta nell’articolo 4, paragrafo 3, esprime un obbligo di condotta in base al quale ogni Parte si impegnerà al massimo nel fissare il proprio obiettivo nazionale di mitigazione nel proprio NDC e nel perseguire le misure nazionali per raggiungerlo.
Questo paragrafo stabilisce per ogni Parte uno standard di dovuta diligenza per raggiungere la massima ambizione possibile in un modo che rifletta le sue circostanze nazionali, cioè le sue responsabilità e capacità.
Un obbligo di dovuta diligenza significa che la Parte interpellata deve introdurre tutti i mezzi ragionevoli e appropriati, esercitare i migliori sforzi possibili o semplicemente fare del proprio meglio per contribuire allo sforzo globale di mitigazione dei cambiamenti climatici.
Agire con la dovuta diligenza richiede anche che i governi agiscano in proporzione al rischio in gioco e con lungimiranza. Inoltre, significa adottare tutte le misure appropriate e necessarie per affrontare il comportamento dei privati, compreso l’utilizzo delle necessarie misure normative, il loro monitoraggio e la loro applicazione.
Di fronte ai rischi del cambiamento climatico e alla violazione dei diritti umani, i governi devono adottare misure di mitigazione commisurate a tale rischio. Ciò implica anche che gli Stati con maggiori capacità sono tenuti a fare di più per decarbonizzare le loro economie e ridurre le emissioni.
Lo standard di diligenza espresso nell’articolo 4, paragrafo 3, dell’Accordo di Parigi richiede, come obbligo di condotta, che il rispondente fissi il proprio obiettivo di mitigazione dei cambiamenti climatici al livello più alto possibile, ossia quello che non è sproporzionatamente oneroso o impossibile da raggiungere.
Tale obiettivo deve essere fissato alla luce degli obiettivi generali di temperatura a lungo termine dell’Accordo, deve essere completo e coprire tutti i settori, e deve basarsi su una valutazione approfondita di tutte le opzioni di mitigazione e del potenziale in tutti i settori rilevanti.
Nel fissare l’obiettivo di mitigazione, una parte deve utilizzare tutte le capacità e le possibilità politiche, legali, socioeconomiche, finanziarie e istituzionali per definire tale obiettivo. Inoltre, deve disporre di misure nazionali necessarie, significative e, di fatto, efficaci per raggiungere tale obiettivo.
Alla luce della scienza, ciò implica l’adozione di tutte le misure necessarie per raggiungere le emissioni nette globali zero entro il 2050. Ciò richiede profonde riduzioni già in questo decennio per garantire che il raggiungimento delle emissioni nette globali intorno alla metà del secolo rimanga possibile.
In questo contesto, l’IPCC indica la necessità di ridurre le emissioni del 50% entro il 2030.
Per raggiungere l’azzeramento globale delle emissioni, le Parti che sono in grado di farlo, in base alle loro responsabilità e capacità, dovranno raggiungere gli obiettivi di azzeramento molto prima del 2050, per consentire anche alle Parti, di arrivarci intorno al 2050. Ciò significa che gli Stati con capacità elevate, come l’Australia, dovranno tagliare molto prima e molto più in profondità per garantire che l’obiettivo globale rimanga raggiungibile.
Ciò è in linea con la dichiarazione congiunta del 2019 di cinque organi delle Nazioni Unite per i diritti umani che hanno invitato gli Stati a: “rispettare i loro obblighi in materia di diritti umani e realizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, devono adottare e attuare politiche volte a ridurre le emissioni, che riflettano la massima ambizione possibile, promuovere la resilienza climatica e garantire che gli investimenti pubblici e privati siano coerenti con un percorso verso emissioni di carbonio ridotte e uno sviluppo resiliente al clima”. In altre parole, gli articoli 2.1 e 4.3 dell’Accordo di Parigi vengono utilizzati insieme per determinare la sostanza degli obblighi in materia di diritti umani rispetto al cambiamento climatico.
In questa dichiarazione, fanno inoltre riferimento a una dichiarazione precedente (2018) del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali che osservava che:
“i meccanismi dei diritti umani hanno un ruolo essenziale da svolgere nel garantire che gli Stati evitino di adottare misure che potrebbero accelerare i cambiamenti climatici e che dedichino il massimo delle risorse disponibili all’adozione di misure volte a mitigare i cambiamenti climatici”.
Il rispetto degli obblighi in materia di diritti umani richiede un’azione climatica drasticamente accelerata, al livello della massima ambizione possibile di ciascuno Stato. Non adottando obiettivi e riducendo le emissioni a quel livello di ambizione, gli Stati non riescono a prevenire i danni prevedibili ai diritti umani causati dal cambiamento climatico – e quindi violano i loro obblighi.
Ciò non significa che il Comitato debba essere prescrittivo su ciò che l’Australia debba fare o sul tipo esatto di misure che deve adottare. Il Comitato, tuttavia, avrebbe potuto stabilire se le misure di mitigazione fossero state adottate con la dovuta diligenza, ossia se fossero ragionevoli e adeguate a prevenire i rischi derivanti dal cambiamento climatico per il godimento dei diritti umani dei ricorrenti.
Inoltre, avrebbe potuto riscontrare una violazione dei diritti e chiedere all’Australia, al fine di “prevenire violazioni simili in futuro”, di rivedere le sue politiche e i suoi piani nazionali e il quadro normativo e amministrativo con l’obiettivo di fare il massimo per mitigare efficacemente i cambiamenti climatici.