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bonifiche siti contaminati e responsabilità del curatore fallimentare

Bonifica siti contaminati e proprietario incolpevole: cambio di rotta

La corretta gestione dei rifiuti in ogni singola fase, ossia dalla produzione allo smaltimento, richiede una specifica e profonda conoscenza del diritto dell’ambiente e non solo, al fine di comprendere le responsabilità amministrative e/o penali da parte di chi, a vario titolo interviene nella “filiera”.

La parte quarta del Testo Unico Ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) è intitolata “Norme in materia di gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati”.

Per quel che qui rileva ricordiamo il Titolo I che apre sulla disciplina generale della gestione dei rifiuti; il sistema delle bonifiche dei siti contaminati al Titolo V ed infine la normativa sul sistema sanzionatorio al Titolo VI.

Nella parte introduttiva sono enunciati alcuni articoli-chiave dai quali non si può prescindere per una interpretazione autentica delle norme, quali, ad esempio, l’art. 183 che fornisce un elenco di definizioni più importanti e l’art. 188 che afferma il principio di corresponsabilità di ogni soggetto implicato nell’ambito del ciclo di rifiuti.

Ma ancor prima, assume rilievo l’articolo 178 sui principi generali che sottendono a tutta la normativa nell’ottica del perseguimento della maggior tutela ambientale possibile, quali la prevenzione della produzione dei rifiuti, la sostenibilità delle attività, la responsabilizzazione di tutti soggetti coinvolti e la loro cooperazione, nonché il principio di “chi inquina paga” l’eventuale danno causato.

In questo scenario, come ben noto, assume un ruolo di fondamentale importanza il “produttore del rifiuto” quale “soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di nuovi rifiuti (produttore finale)”.

Come anticipato, il nuovo testo dell’articolo 183, c. 1, l. f) fornisce un’ampia definizione di produttore di rifiuti ricomprendendovi sia il “produttore iniziale” che il “nuovo produttore”.

Su tale soggetto ricadono molteplici oneri e responsabilità tra cui l’individuazione del soggetto idoneo, legittimamente autorizzato ed iscritto cui affidare il rifiuto prodotto, nonché, come già anticipato, la corretta gestione dello stesso in ogni fase di vita del rifiuto stesso.

E’ ormai noto, in definitiva quindi, che la responsabilità del produttore si sostanzi nella presa di conoscenza dell’esistenza e della validità di ogni autorizzazione in capo ai singoli soggetti cui conferisce, vende o affida a qualsiasi titolo il rifiuto da lui prodotto (cfr. ex multis Cass. Pen. Sez. III sent. n. 31351/2017).

Da questo, ai sensi dell’art. 192 TUA, ne consegue il divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul e nel suolo, nonché l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere nelle acque sotterranee e superficiali.

A fronte di queste considerazione cosa accade nel caso in cui intervenga la dichiarazione di fallimento del produttore che ha causato l’inquinamento ambientale?

Chi ed in quali termini assume l’onere della gestione dei rifiuti?

Si può parlare di una vera e propria responsabilità del curatore fallimentare in materia di tutela ambientale?

Orbene, in merito a quest’ultima particolare ipotesi negli ultimi anni non vi è stata unanimità di vedute, né sul piano dottrinale, né tantomeno a livello giurisprudenziale.

L’acceso dibattito che, a seguito degli ultimi sviluppi giurisprudenziali, potrebbe ormai essere un ricordo, seppur non troppo lontano, ha visto susseguirsi nel tempo diversi orientamenti anche in totale contrasto tra di loro.

Nel tentativo, dunque, di riempire un vuoto normativo, la dottrina e la giurisprudenza degli ultimi anni si sono interrogate a fondo sul ruolo assunto dal curatore fallimentare, nonché sui compiti ed eventuali responsabilità che ne conseguono.

L’orientamento fino a questo momento prevalente negava qualunque responsabilità e/o attribuzione di obblighi in capo al curatore fallimentare.

Secondo il TAR Toscana, considerato che i rifiuti prodotti dall’imprenditore fallito non costituiscono beni da acquisire alla procedura fallimentare (cfr. TAR Toscana sent. n. 1318/2001) la responsabilità del curatore fallimentare doveva essere circoscritta unicamente ai rifiuti prodotti durante la gestione provvisoria; infatti, “[…] proprio  il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente collegati alla responsabilità dell’imprenditore fallito” (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 4328 /2003).

Iniziava a consolidarsi, così, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che attribuiva una responsabilità al curatore fallimentare, tuttavia esclusivamente nell’ipotesi di esercizio provvisorio (cfr. ex multis Tar Abruzzo sent. n. 1393/2004; TAR Latina sent n. 304/2005; TAR Milano sent. n. 1159/2005).

L’esclusione della responsabilità del Curatore fallimentare si estendeva anche all’ipotesi del comma 4, infatti con sent. n. 3274/2014 il Consiglio di Stato afferma: “il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione […]  Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell’amministrazione del suo patrimonio per l’esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926) […]”.

Il curatore non può, dunque, essere considerato quale “custode” degli immobili di proprietà del fallito, non subentrando nei diritti della società sottoposta alla procedura fallimentare. Non viene, dunque, assoggettato agli obblighi previsti dall’art. 192 comma 3 TUA in merito alla rimozione dei rifiuti (cfr. ex multis T.A.R. Trento, sent. n. 93/2017; T.A.R., Milano, sent. n. 520/2017).

Di tenore opposto si è consolidato per converso l’orientamento minoritario, secondo il quale in base al diritto comunitario ed in applicazione dei principio generale secondo cui “chi inquina paga” che presuppone una responsabilità non di posizione bensì di tipo oggettivo, il curatore deve essere considerato quale “detentore” dei rifiuti in quanto assume la custodia dei beni del fallito in ogni caso, ossia anche quando non vi è prosecuzione dell’attività imprenditoriale.

Impostazione, quest’ultima, confermata, tra le altre, dalla sentenza n. 3672/2017 del Consiglio di Stato secondo il quale il curatore assumerebbe la qualifica di detentore a prescindere dal verificarsi del fenomeno successorio fra la società sottoposta a procedura fallimentare e la curatela.

Dunque, sul curatore quale “detentore” graverà, ragionevolmente, il divieto di abbandono dei rifiuti e l’obbligo di mettere in sicurezza i luoghi e procedere con lo smaltimento o il recupero.

Successivamente è stato poi riaffermato con forza il principio giurisprudenziale in base al quale non si può ravvisarsi una responsabilità conseguente alla mera posizione del curatore in assenza dell’autonoma, univoca e chiara responsabilità dello stesso.

Ma allora, quale deve essere considerata la corretta qualificazione di “detentore dell’area dove sono situati i rifiuti”?  Chi è il soggetto obbligato ai sensi dell’art. 192 comma 3? In ossequio ai principi generali, quale deve essere considerato il soggetto obbligato della rimozione dei rifiuti nell’ipotesi in oggetto? A seguito della dichiarazione di fallimento, permangono sulla società fallita gli obblighi giuridici ai sensi dell’art. 192 del Testo Unico Ambientale?

A queste domande risponde il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale con la recentissima sentenza n. 3 del 26 gennaio 2021 che, ribaltando completamente l’orientamento maggioritario precedente ed in continuità con quello minoritario, afferma il seguente principio di diritto: “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 D.Lgs 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.

Partendo dal principio già espresso secondo cui non si verificherebbe un fenomeno successorio sul piano giuridico e dai principi generali di derivazione comunitaria e ripresi dal nostro Codice dell’Ambiente di precauzione e prevenzione e responsabilità, i giudici amministrativi arrivano ad enunciare la corretta qualificazione da attribuire al curatore.

Quest’ultimo sarà riconosciuto sì come “detentore” ma non dei rifiuti, bensì del fondo, ossia del “bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono”, restando, dunque, l’esimente di cui al comma 3 dell’articolo succitato, prevista solo per chi non rivesta la qualifica di detentore.

Testualmente: “la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti ( che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare “beni negativi”), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti)”.

Infatti “Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l’unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento”.

Il Collegio, dunque, riprendendo, l’orientamento minoritario precedente afferma, senza più alcun dubbio, la responsabilità del curatore fallimentare quale detentore del bene immobile inquinato, per l’eventuale abbandono o deposito incontrollato dei rifiuti, per la loro mancata rimozione o messa in sicurezza o per il mancato avvio allo smaltimento o recupero.

Infatti, in ossequio ai principi europei, non rileva la distinzione propria del diritto nazionale sui concetti di “possesso” e “detenzione”, quanto, al contrario l’effettiva disponibilità materiale dei beni, ossia “[…] la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati” oppure la disponibilità giuridica, essendo il “rapporto gestorio” proprio dell’attività del curatore fallimentare che, appunto, “amministra” i beni del soggetto fallito oggetto della procedura.

Nella sentenza viene, altresì, affrontato il problema dei costi relativi alla rimozione dei rifiuti e alle eventuali operazioni di bonifica, i quali dovranno, ragionevolmente essere imputati alla procedura fallimentare in quanto costi effettivamente sostenuti.

Infatti “[…] l’abbandono dei rifiuti e, più in generale, l’inquinamento costituiscono “diseconomie esterne” generate dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale imposizione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditorialità stesso che, per conto, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento”, non potendo i suddetti costi, ragionevolmente, ricadere sulla collettività incolpevole.

In conclusione, dunque, a seguito della dichiarazione di fallimento nei confronti dell’imprenditore, il curatore fallimentare assume, ora più di prima, la posizione di detentore con tutte gli obblighi e le responsabilità connesse e tra queste le attività strumentali alla bonifica.

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