Espansione globale del regime “sui generis” europeo di protezione delle indicazioni geografiche?
Quanto sia delicato il tema della protezione dei prodotti di qualità, soprattutto nostrani, contro i tentativi di imitazione è cosa ben nota.
Il discorso è valido per diversi settori, dalla manifattura all’agroalimentare, e spesso è ricorrente con riferimento al mercato cinese, che ha basato la propria vertiginosa crescita economica sull’imitazione, a costi di manodopera e produzione più bassi.
L’importanza del tema è data dal giro di affari che questi rinomati prodotti possono generare, che è minacciato tuttavia dalla presenza di prodotti concorrenti non della stessa fattura, ma che riescono comunque a “mangiare” una buona porzione del mercato.
Sulla base di questa premessa è facile capire perché l’accordo sull’indicazione dell’origine geografica raggiunto tra l’Unione Europea e la Cina nel novembre del 2019, poi approvato dal Consiglio europeo a luglio 2020, sia stato definito da diverse voci “di portata storica”.
L’accordo è culmine di una lunghissima cooperazione tra Europa e Cina sul tema, iniziata nel 2003 con il “Dialogo Europa-Cina sulle proprietà intellettuali”, e segue il progetto “10+10”, il cui obiettivo era precisamente quello di fornire una protezione particolare ai prodotti esportati dalla UE nel mercato cinese, laddove prima dell’avvento di questo progetto veniva protetta solo l’indicazione geografica dei prodotti cinesi.
L’accordo mira a proteggere 100 prodotti (più altre 175 in futuro) provenienti da ciascuna parte, selezionati sulla base di particolari parametri tra i quali il valore economico, la potenziale esportabilità e il rischio di contraffazione.
Tra questi rientrano moltissimi prodotti italiani IGP E DOP (praticamente un quarto del totale compresi nell’elenco), rinomati in tutto il mondo per la qualità, tra cui molti vini (Chianti, Valdobbiadene), formaggi (pecorino, gorgonzola), e salumi (crudo di Parma).
Commentando il raggiungimento di questo risultato, il commissario per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan ha dichiarato che “I prodotti a indicazione geografica europea sono rinomati in tutto il mondo per la loro qualità e i consumatori sono disposti a pagare un prezzo più elevato perché si fidano dell’origine e dell’autenticità di questi prodotti, ricompensando in questo modo gli agricoltori. L’accordo dimostra il nostro impegno a collaborare strettamente con i partner commerciali di tutto il mondo, come la Cina. Si tratta di una vittoria per tutti in quanto rafforza le relazioni commerciali, apportando benefici al settore agroalimentare e ai consumatori di entrambe le parti.”
L’accordo si compone di 14 articoli, che stabiliscono, tra le altre cose, le modalità di registrazione delle indicazioni geografiche, le modalità di utilizzo e i rapporti tra indicazioni geografiche e marchi registrati.
Il sistema di protezione elaborato dalle parti è articolato sulle seguenti basi:
a) l’istituzione di uno o più registri che elenchino le indicazioni geografiche protette nel territorio;
b) la previsione di una procedura amministrativa di verifica dell’indicazione geografica per quei prodotti la cui peculiarità è strettamente connessa al luogo di produzione (es. Grana Padano);
c) l’obbligo che una denominazione registrata corrisponda ad uno o più prodotti specifici per i quali è stabilito un disciplinare che può essere modificato solo tramite un’apposita procedura amministrativa;
d) la previsione di particolari disposizioni di controllo sulla produzione;
e) un’azione amministrativa esercitabile dalle autorità pubbliche per ottenere la protezione delle denominazioni registrate;
f) il diritto di commercializzare il prodotto con denominazione protetta per il produttore, previa accettazione della procedura di controllo;
g) la previsione di una procedura di opposizione per la protezione dei precedenti utilizzatori delle denominazioni, siano esse protette o meno. La protezione fornita dall’accordo ai prodotti in esso contenuti contrasta l’utilizzo di ogni elemento che indichi che il determinato prodotto è originario di un’area geografica diversa dal vero luogo di produzione, e ogni altra pratica che ingeneri confusione tra un prodotto di origine certificata e una sua imitazione.
Per favorire l’implementazione e il corretto funzionamento dell’accordo, le parti hanno inoltre deciso di istituire un “comitato misto”, che si riunirà almeno una volta all’anno a turno in Cina o in Europa, per monitorarne l’applicazione ed eventualmente proporre modifiche e ampliamenti.
Guardando l’accordo dalla prospettiva europea, si tratta di un accordo di fondamentale importanza sul piano economico, visti i numeri generati dall’export europeo proprio verso la Cina, che nel 2019 si collocava al terzo posto per quanto riguarda le esportazioni di prodotti agricoli da parte di paesi UE.
Si tratta tuttavia di un tassello all’interno di un più ampio mosaico di accordi che l’Unione ha stretto con diversi altri paesi per rafforzare la tutela dei propri prodotti; prima di questo infatti l’UE ha stretto accordi di vario tipo con Corea del Sud, Colombia e Perù, Canada, e altri paesi centro-americani tra cui in particolare il Messico.
Il punto di partenza di questo percorso di progressiva ricerca di ampliamento della tutela dei prodotti europei è costituito dall’”Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale” (c.d. TRIPs), il grande trattato internazionale promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio ufficializzato nel 1994, la cui tutela era tuttavia limitata ai vini e liquori.
Per quanto riguarda invece il lato cinese, in questo caso le ragioni che hanno determinato il raggiungimento di questo traguardo sono senz’altro di natura economica ovviamente, ma anche e soprattutto sanitaria.
L’aumento delle esportazioni dei migliori prodotti europei verso la Cina è stato infatti favorito dalla crescita della domanda da parte della classe medio-alta cinese, che nel corso dell’ultimo ventennio ha sviluppato una particolare sensibilità rispetto alla qualità dei prodotti alimentari.
Diversi sono stati infatti i casi mediatici causati dalla messa in commercio e utilizzo di alimenti di scarsa qualità: come riporta un recente articolo del South China Morning Post, almeno cinque neonati hanno recentemente subito reazioni avverse in seguito all’utilizzo di una particolare polvere per latte, reazioni consistenti in rigonfiamento della testa e rachitismo.
Come riporta lo stesso articolo, si tratta di un evento che si era già verificato 12 anni prima, quando oltre 300.000 neonati furono intossicati dall’ingerimento di latte contenente melammina, un composto utilizzato per la produzione di plastica. Questi avvenimenti sono dovuti al commercio nel mercato cinese di prodotti che non rispettano gli standard di qualità e di produzione e che spesso tentano di vendersi come rinomati prodotti esteri.
Da qui la preoccupazione dei consumatori cinesi, che potendosi permettere i prodotti più costosi di alta qualità e con un’indicazione geografica certificata, hanno aumentato la richiesta e ne hanno favorito la circolazione; da qui la volontà di estendere la collaborazione iniziata con il già citato progetto “10+10”, in cui erano previste tutele per 10 IG di ambo le parti.
Questo accordo certifica ancora una volta la volontà di apertura dell’economia cinese verso il mercato globale, un processo iniziato ormai diverso tempo fa, e si inserisce in quel contesto che è stato definito “la nuova era” del socialismo con caratteristiche cinesi; in questa nuova fase, avviata dal leader cinese Xi Jinping, la Cina ha come obiettivo una crescita meno vertiginosa, ma più sostenibile e incentrata sulla qualità dei prodotti.
In questo senso, l’accordo in argomento potrebbe essere un segno importante di un progressivo mutamento dell’economia cinese, che negli ultimi 30 anni ha giocato prevalentemente il ruolo di produttore, mentre ora, complice la naturale evoluzione economica e la conseguente flessione (benché di flessione possa parlarsi se a luglio 2019 il PIL cinese cresceva “solo” del 6,2%, dato più basso rispetto ai 27 anni precedenti), potrebbe mutare il proprio ruolo, o quantomeno ampliarlo, in paese di consumo.
Nel contesto che ha favorito questo accordo bisogna poi considerare i rapporti che la Cina intrattiene con gli altri principali attori della scena economica, in primis ovviamente gli USA, con cui i rapporti sotto la presidenza Trump (soprattutto dopo la pandemia e le relative accuse di responsabilità da parte del Presidente USA) sono scesi al minimo storico.
In questo senso l’Accordo sulle Indicazioni Geografiche può essere letto come passo di una strategia cinese più ampia, volta a rafforzare i propri rapporti con altri interlocutori (nonché la propria immagine, si pensi ad esempio agli aiuti inviati in Europa a inizio pandemia), e conseguentemente la propria posizione nei confronti degli USA.
Un’ulteriore conferma di questo tipo di strategia è l’iniziativa “Belt and Road”, la c.d. “Nuova Via della Seta”, tradotta in diversi investimenti di tipo logistico finalizzati a favorire le relazioni commerciali con diversi paesi compresi in un’area che va dal mediterraneo, passando per il continente asiatico, fino all’Australia.
Infine, come ultimo elemento da considerare in relazione all’Accordo sulle IG, non si può fare a meno di menzionare l’epidemia di Covid-19, e le conseguenze negative sull’economia mondiale dovute ai lockdown e le altre misure adottate in ogni paese per contrastare l’epidemia. Gli stop imposti alla produzione e agli spostamenti potrebbero influire in modo sensibile sui numeri degli scambi tra Cina e Europa nel prossimo periodo, diminuendoli.
Tuttavia è verosimile credere che non basterà questo evento imprevisto a minare l’efficacia e la positività di questo accordo per entrambe le parti, che sono destinate ad avvicinarsi sempre di più soprattutto per interesse della Cina, determinata, come detto, a rafforzare la propria posizione di leadership nell’economia globale.