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norme legislative a contrasto del greenwashing

Greenwashing: condotte sleali e risposte legislative a contrasto

BusinessGiugno 25, 2023

La surreale adesione ai valori condivisi può generare accese diatribe e forti problematicità soprattutto a livello macro sistematico. Uno dei fenomeni più diffusi di questa oscura attitudine va senza dubbio ascritto alla sedicente identità eco friendly che alcune aziende moderne declamano per accrescere da un lato la loro reputazione aziendale e su cui poter basare dall’altro le proprie campagne pubblicitarie e di marketing, i c.d. green claim.

Più in particolare, il meccanismo in questione – Greenwashing – è nato dalla combinazione tra le parole green (il colore tradizionalmente associato all’ambiente e al movimento ambientalista) e whitewashing (imbiancare e, in senso figurato, dissimulare o nascondere qualcosa), riferendosi al tentativo dell’impresa di “tingersi di verde”, e dichiarare di essere green anche quando invece non lo è nella realtà, per creare un’immagine positiva delle proprie attività e dei propri prodotti o per nascondere comportamenti dannosi nei confronti dell’ambiente.

Sotto un profilo di ordine genealogico, inoltre, l’origine del termine risale ad un’iniziativa c.d. neologistica dell’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che nel 1986 stigmatizzò così la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione relativa a un taglio nei costi di gestione.

Il meccanismo logico operativo cui ricorrono i soggetti agenti, guardato nella propria dimensione dinamica, si avvale di sinergie captatorie poiché le aziende in questione, attraverso questa pratica ingannevole, si attivano con l’obiettivo di apparire più “sostenibili”, dimostrando un finto impegno nei confronti dell’ambiente con la finalità di catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità.

Come gli ordinamenti hanno iniziato a difendersi dal Greenwashing

Sennonché e come accennato, questa logica persuasiva si è concretizzata nel ricorso a pratiche dalla tendenza fraudolenta (ex multis, senza dati puntuali od informazioni che supportino quanto dichiarato, enfatizzando le caratteristiche di quanto comunicato, utilizzando etichette false o contraffatte, od ancora e per citare il caso più frequente, dando rilievo ed enfatizzando informazioni generiche al punto da creare confusione con i consumatori).

Ora, descritta brevemente la fisionomia dell’istituto, bisogna porre in rilievo con quali strumenti di tipo diagnostico l’ordinamento ha iniziato a tutelare sé stesso.

Negli USA

La Federal Trade Commission (FTC) negli USA è stato il primo ente a stilare, nel 2010, delle linee guida per l’utilizzo dei cosiddetti environmental marketing claims.

L’obiettivo era imporre alle aziende chiarezza e trasparenza non solo nel definire entità e portata del proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte stilistiche e di linguaggio promozionale, proprio per evitare claim non veritieri.

Successivamente la portata pregiudizievole del fenomeno è stata preannunciata già in uno studio della Commissione Europea del 2014 nel quale si rilevava che, nel territorio comunitario, il 76% dei prodotti commercializzati era corredato da un green claim (sia con riferimento al prodotto in se stesso che al suo imballaggio), che oltre il 60% del campione intervistato preferiva acquistare prodotti che ritenevano eco-sostenibili e che, tuttavia, il 61% non sapeva come distinguere effettivamente quali di questi prodotti fossero effettivamente eco-sostenibili.

Come si può agevolmente comprendere, in quella sede si giunse così alla conclusione che una parte preponderante dei green claim analizzati era sprovvista di precisione e chiarezza, addirittura notando che alcuni di essi contenevano informazioni false a tutti gli effetti.

In Europa

Per quanto riguarda invece il nostro continente, in particolare, va segnalata de jure condendo anzitutto la gestazione di una normativa stringente su tutto quello che può essere definito o meno green.

La Tassonomia Ue, approvata dal Parlamento europeo circa tre anni fa nel 2020, ha così contribuito a definire i canoni per stabilire quale fosse davvero “un’attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”.

In Italia

Quanto all’Italia, rileva citare il Tribunale di Gorizia che, con l’ordinanza cautelare emessa il 25 novembre 2021 all’esito di un ricorso ex artt. 669-bis e ss. e 700 c.p.c., è stato il primo foro ad aver avuto l’opportunità di esprimersi sul fenomeno del greenwashing.

Il procedimento cautelare era stato avviato da una società operante nel settore dei rivestimenti per automobili che si era vista danneggiata da un’impresa concorrente, la quale attribuiva ai propri tessuti pregi ambientali generici, fuorvianti e non dimostrabili.

La ricorrente, dunque, chiedeva, in via cautelare, tra l’altro, l’emissione di un ordine di inibitoria volto a far cessare tale illegittima condotta, che rischiava di pregiudicare la quota di mercato acquisita dalla ricorrente medesima.

Il Tribunale di Gorizia, all’esito del procedimento, in particolare, ritenute fondate le doglianze della ricorrente ha concesso l’inibitoria richiesta, rilevando che i messaggi pubblicitari utilizzati dalla società resistente contenevano rimandi a vantaggi ambientali che non erano verificabili o erano del tutto generici ed idonei a confondere i possibili destinatari ed evidenziando altresì che gli effetti negativi di una simile condotta si estrinsecavano verso due direttrici: da una parte, verso i consumatori finali, i quali, seppure indirettamente, potevano essere indotti ad acquistare beni/servizi che apparivano essere eco-friendly, ma che probabilmente non lo erano, poiché i produttori di autoveicoli avrebbero potuto riutilizzare nei confronti del pubblico i green claim adoperati dalla resistente che era parte della loro supply chain e, dall’altra, nei confronti delle altre imprese, in quanto l’adozione di tali messaggi pubblicitari illegittimi avrebbe consentito un vantaggio competitivo a favore dell’impresa utilizzatrice e dunque realizzava una fattispecie di concorrenza sleale.

Pur senza esplicitarlo direttamente, il Tribunale adito nella motivazione del provvedimento, ha ritenuto evidentemente che l’impresa resistente avesse posto in essere una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c.

Tale conclusione sembra peraltro rafforzata dalla inibitoria alla diffusione dei messaggi pubblicitari oggetto di causa disposta dal giudicante, in quanto ritenuti idonei a pregiudicare irreparabilmente la quota di mercato acquisita dalla società ricorrente.

Secondo il Tribunale il greenwashing si inserisce senz’altro nel più ampio genus della pubblicità ingannevole, ma la sentenza fa anche ampio richiamo di alcune disposizioni del Codice e della giurisprudenza autodisciplinare, dalla quale mutua il principio in virtù del quale le comunicazioni pubblicitarie che enfatizzano la dimensione eco-sostenibile di un prodotto/servizio non possono essere generiche.

Lungo questa dichiarata linea ermeneutica, in particolare, il Tribunale ha censurato l’utilizzo di locuzioni come “scelta naturale, amica dell’ambiente, la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo, microfibra ecologica” per la loro genericità e per la loro capacità di prefigurare nel potenziale consumatore l’immagine ecosostenibile di un prodotto senza “dar conto effettivamente di quali siano le politiche aziendali che consentono un maggior rispetto dell’ambiente e riducano fattivamente l’impatto che la produzione e commercializzazione di un tessuto di derivazione petrolifera possano determinare in senso positivo sull’ambiente e sul suo rispetto”.

A sostegno della indispensabile specificità che deve connotare il contenuto di un green claim vi è, infine, la considerazione che altrimenti non sarebbe rispettata l’esigenza di effettiva tutela dell’ambiente se i vanti ambientali contenuti nei messaggi pubblicitari diventassero frasi di uso comune e non corrispondessero esattamente a una determinata qualità del prodotto/servizio pubblicizzato.

In Francia

Di analoga importanza, sempre nel panorama europeo, l’esperienza francese, in considerazione della recente adozione del disegno di legge “Climat et Résilience” da parte dell’Assemblea nazionale in data 4 maggio 2021; esso infatti ha recepito le istanze provenienti dalla classe imprenditoriale transalpina in relazione all’esatta identificazione e delimitazione dell’ambito di liceità dei green claim (le “communication verte”), avuto riguardo alla loro progressiva diffusione ed utilizzazione nella comunicazione commerciale. Uno dei tratti salienti del citato disegno di legge risiede certamente nella modifica apportata all’art. 121-2 del codice del consumo dedicato all’elencazione delle fattispecie al ricorrere delle quali viene configurata una pratica commerciale scorretta, con l’introduzione dell’espresso riferimento alla protezione ambientale.

Il disvalore attribuito alle pratiche di greenwashing (o, nella sua versione francese, anche “écoblanchiment”) dal legislatore francese è, altresì, testimoniato dalla modifica dell’art. 132-2 del codice del consumo relativo all’enucleazione delle sanzioni irrogabili a coloro che fanno uso di pratiche commerciali scorrette.

Così facendo, qualora il messaggio ingannevole integri la fattispecie di écoblanchiment, fatte salve le sanzioni previste per le pratiche commerciali scorrette ordinarie, la pena pecuniaria potrà essere aumentata fino all’80% delle spese sostenute per la realizzazione di detta pratica e in misura proporzionale ai vantaggi ricavati dall’illecito.

In aggiunta, è previsto ulteriormente che al provvedimento emesso per comminare la sanzione venga data debita pubblicità mediante la sua affissione o riproduzione su un quotidiano a tiratura nazionale e sulle relative versioni digitali, fermo restando l’obbligo impartito alla persona giuridica condannata di diffonderlo sul suo sito internet per un periodo di almeno 30 giorni.

Le novità europee del 2023 nel contrasto al greenwashing

Tornando al panorama internazionale, da ultimo nel marzo 2023 la Commissione europea ha proposto nuovi criteri comuni per contrastare il greenwashing e le asserzioni ambientali ingannevoli, che sono stati approvati nel Parlamento a maggio 2023. Si tratta nello specifico di una proposta che nei suoi contenuti ha integrato quella riferita al marzo 2022 sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde, stabilendo norme più specifiche in materia di asserzioni ambientali, oltre a un divieto generale di pubblicità ingannevole.

A livello globale, invece, vanno menzionate le norme proposte a ottobre 2022 dalla Financial Conduct Authority (FCA), volte a introdurre etichette di sostenibilità per i prodotti di investimento e dei requisiti di divulgazione, nel tentativo di reprimere il greenwashing realizzato attraverso l’esagerazione o la falsa rappresentazione delle dichiarazioni ESG.

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