AfCFTA: la più grande area di libero scambio al mondo
L’Accordo sull’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA – African continental free trade area acronimo inglese) creerà la più grande area di libero scambio al mondo in base al numero di Paesi partecipanti.
Tale affermazione arriva dalla World Bank, in un report di 163 pagine che illustrano l’analisi dei possibili benefici economici consequenziali alla cosiddetta “integrazione africana”.
Il progetto africano comune è partito nel 21 marzo 2018, data in cui è stato firmato l’accordo a Kigali (capitale del Rwanda), che ha coinvolto 54 stati, dove 36 di essi, ad oggi, l’hanno ratificato. A questo si aggiungono tre protocolli regolatori delle procedure di scambio di beni e servizi e la risoluzione delle controversie.
Con lo scopo principale di ridurre le tariffe commerciali tra i Paesi membri, al fine di incentivare il free trade e facilitare il commercio internazionale, la nascita dell’African Continental Free Trade Area si pone come uno dei disegni più importanti nel contesto dell’Agenda 2063 dell’Unione Africana volta a promuoverne lo sviluppo economico e sociale, nonché costituire un passo fondamentale per il processo d’integrazione del continente.
La fase embrionale del risultato di quello che oggi è l’AfCFTA, avvenne nel 1991 con l’istituzione della Comunità economica africana, frutto del Trattato di Abuja.
L’intenzione iniziale era quella di creare un’integrazione regionale.
La finalità, oggi, viene definita dall’art. 6 del Trattato sul libero scambio africano, ovvero agevolare il commercio di beni, servizi, investimenti, diritti di proprietà intellettuale e la politica di concorrenza, ciascuno dei quali occupa un protocollo differente.
Le comunità riconosciute dall’Unione africana sono otto, e nascono come blocchi commerciali fondamentali ai fini del mantenimento della pace all’interno delle regioni del continente; queste sono:
- Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara (CEN-SAD) con numero di stati membri pari a 29;
- Mercato comune dell’Africa orientale e meridionale (COMESA) con 21 stati membri;
- Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) con 16 stati membri;
- Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) con un numero di stati membri pari a 15;
- Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale (ECCAS) con 11 stati membri;
- Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD), con 8 stati membri;
- Comunità dell’Africa Orientale (EAC), con 6 stato membri;
- Unione del Maghreb Arabo (AMU), con un numero inferiore di stati membri pari a 5.
Come è possibile notare, vi sono molti stati africani che appartengono a più blocchi distinti, fattore che a livello strategico economico commerciale, in funzione di un’Unione regionale, non porta a grandi benefici.
Per fare un esempio, quando uno stato appartiene a più blocchi regionali, dovrà rispettare maggiori e differenti requisiti richiesti da uno degli stati importatori per esportare un medesimo bene.
Inoltre, nel commercio regionale africano, oltre alle limitazioni date dalla mancanza di diversificazione tra paesi, non tutti i blocchi commerciali sono cresciuti percentualmente in riferimento al commercio intra-regionale, bensì solo tre (COMESA con 20% sul totale, ECCAS con l’11%, ECOWAS con l’8%) hanno registrato una crescita a seguito dell’istituzione del libero scambio e dell’unione doganale. Tuttavia, le stime forniscono speranza sulla base dei dati attesi.
Dazi e barriere non tariffarie
Il progetto prevede l’eliminazione progressiva di quasi il 90% dei dazi e delle barriere non tariffarie, stimolando il libero scambio di beni e servizi.
I dazi, così come le barriere non tariffarie, sono riconducibili a quella categoria di strumenti che il governo ha la facoltà di applicare per limitare il free trade; sono ciò che l’Organizzazione Mondiale del Commercio vuole abbattere del tutto.
I primi sono l’esempio più antico nonché utilizzato dalle politiche commerciali.
Essi si dividono in dazi sugli importi e sull’esportazioni, suddividendosi ulteriormente in specifici e ad valorem.
Mentre nel primo caso si identifica in una tariffa fissa, applicata in egual misura per ciascuna unità di bene importato, la seconda varia a seconda del valore del singolo prodotto.
Le barriere non tariffarie, invece, non prevedono alcun esborso in termini economici, bensì sono misure differenti che scoraggiano o limitano le importazioni di alcuni prodotti sul territorio nazionale (ad esempio, prevedendo delle norme in tema di imballaggio, etichettatura).
I benefici dell’AfCFTA
Da un punto di vista economico, rispetto all’imposizione di tariffe su prodotti importati, è possibile delineare le figure vincitrici dalle perdenti; orbene: il governo vince, così come i produttori domestici, mentre i consumatori perdono.
Il governo, che decide di adottare una politica restrizionista verso il commercio internazionale, guadagna rispetto alle tariffe economiche imposte sui prodotti importati, poiché corrisponderebbero ad una nuova entrata; i produttori, inoltre, vengono salvaguardati da una concorrenza esterna, mondiale, che, qualora esposte, potrebbe vederle fallire (d’altro canto, però, una maggiore concorrenza internazionale, andrebbe a migliorare il prodotto sul mercato, stimolando la competitività tra le imprese, nonché diminuirne il costo di vendita a favore del compratore).
Il perdente è il consumatore, il quale vede aumentare il prezzo di alcuni beni importati e che vorrebbe acquistare.
Attraverso l’apposizione di clausole comuni alle intenzioni degli stati africani si intende abbattere questo status quo incentivando i governi ad eliminare (o, perlomeno, diminuire) le barriere tariffare e no.
Una di queste clausole, certamente, è la clausola della nazione più favorita (MFN – most favoured nation) prevista dall’art. 5 del Trattato di libero scambio africano, appartenente ad uno di quei principi fondamentali che compongono l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Sulla base del principio di reciprocità, i paesi si riservano di trattare, in egual misura, tutti i partner commerciali, non preferendo, dunque, uno Stato, piuttosto che un altro.
Nel caso del continente africano, la collaborazione reciproca tra i paesi porterebbe, secondo i dati stimati dalla World bank, ad un aumento del reddito reale del 7%, ovvero 445 miliardi di dollari, entro il 2035.
Inoltre, un altro fondamentale beneficio ricadrebbe sulle condizioni di povertà estrema che molti paesi africani presentano ancora oggi.
Il raggiungimento del libero scambio commerciale potrebbe salvare 30 milioni di persone dalla povertà estrema, oltre al fatto di vedere un aumento di salari di oltre il 10% percento.
Gli scambi intra-africani subirebbero un incremento notevole in termini monetari: attraverso l’accordo, infatti, il commercio potrebbe crescere di 238 miliardi di dollari, raggiungendo i 532 miliardi.
Tenendo conto che nel 2019 il continente registrava il 14,4% del commercio entro i suoi confini, rispetto al 73% intra-europeo e il 52% all’interno del territorio asiatico, si può considerare una crescita notevole. Tale aumento è dovuto dall’accrescimento delle esportazioni, le quali passeranno dal 12% al 21%, per un aumento totale dell’81%, che delle importazioni che aumenteranno, presumibilmente, dal 12 al 25% (quasi il 102%) nel giro di quindici anni. Si prevede anche un aumento del 19% per le esportazioni extra-continentali.
Il settore che occuperà principalmente le esportazioni e importazioni africane sarà quello del manufatturiero.
Oggetto, invece, degli export verso l’Unione Europea (pari al 76,7 %) o la Cina (pari all’ 88,9 %) sono i c.d. beni intermedi, contrapposti al prodotto finale, ovvero quello utilizzato per la produzione dei beni venduti direttamente al consumatore.
Una maggiore visione sul panorama globale potrebbe aiutare il continente africano ad incrementare la qualità e la diversificazione dei beni esportati, contribuendo, peraltro, all’aumento della concorrenza nazionale ed internazionale, stimolando l’innovazione e produttività dell’economia africana.
I possibili ostacoli all’African Continental Free Trade Area
Tuttavia, vi sono diverse difficoltà che potrebbero limitare sentimenti ottimisti di vedersi realizzare tali previsioni.
In primis, assenza di consapevolezza delle aziende africane, fatta eccezione di circa un quarto delle companies in Nigeria e in Gambia, circa l’esistenza dell’AfCFTA. Nel continente africano, infatti, si parla di commercio internazionale “informale”, ovvero scambi che non vengono registrati a livello locale.
Inoltre, sarebbe opportuno modificare radicalmente alcuni aspetti burocratici che ostacola fortemente il rilascio al credito alle PMI del continente africano. Infatti, l’inadeguatezza delle infrastrutture e l’accesso non agevolato al credito per le imprese private, sono aspetti che, seppur non oggetto della AfCFTA, devono essere posti come primo grande cambiamento da fare.
Infine, l’Europa ha un interesse economico e di sicurezza vitale in un’Africa stabile e sempre più prospera.
Si prevede che la popolazione africana raggiungerà circa 2,5 miliardi di persone entro il 2050, presentando promettenti opportunità commerciali e di investimento in quanto ultimo mercato di frontiera del mondo, ma sollevando anche sfide critiche in termini di sicurezza e stabilità.
Poiché l’AfCFTA darà impulso al commercio intra-africano, creerà posti di lavoro migliorando il benessere, il sostegno all’attuazione di questo accordo commerciale pan-continentale dovrebbe essere una delle principali priorità dell’UE e dei suoi Stati membri.
L’UE ha inizialmente offerto un supporto di capacità per i negoziati dell’AfCFTA.
L’attenzione dovrebbe ora concentrarsi sul supporto tecnico per l’attuazione, comprese le riforme interne che aumentano la competitività e facilitano l’adeguamento.